martedì 6 novembre 2007

IL RITRATTO

Era la stagione in cui il sole si spegne in freddi tramonti e la notte sopravvive al giorno. L’aria era frizzante e sapeva già di festa e di Natale. Milano si era rivestita di grigio e i negozi brillavano sotto le luminarie accese. La gente camminava per le strade infreddolita e avvolta in caldi cappotti di lana. Anche Marco Rampaldi a passi lenti percorreva le vie del centro.
Sessant’anni vissuti tra protocolli, timbri e lettere da archiviare. Insomma una vita dignitosamente felice, senza grandi avvenimenti e con un’abitudinaria quotidianità. Era solo, non si era mai sposato. Abitava in via Zuretti in una palazzina degli inizi del secolo scorso che aveva attorno un piccolo giardinetto. La sua casa era come lui, pulita, ordinata, con nulla fuori posto. Da che lui si ricordi aveva sempre abitato lì. Figlio unico rimasto orfano di padre ancora bambino, aveva trascorso tutta la sua esistenza con la madre tra quelle pareti. Una piccola cucina giallina, due camere da letto, un bagno, una specie di tinello con un divanetto marrone e una sala.
Quella sera Marco Rampaldi aveva deciso di tornare a casa a piedi. Voleva godersi la sua città e guardare le vetrine. Gli piaceva quell’aria agitata che precede la festa. Tutti si muovevano in modo confuso disordinato. Ognuno con un pacchetto in mano e tanti regali per la testa ancora da fare. Lui no, lui non aveva importanti regali da fare, se si escludono quelli per gli amici del bar, e ne aveva di amici. Nonostante la sua esistenza potesse sembrare monotona e triste in realtà era piena di sogni, di fantasie e storie che ogni tanto raccontava agli amici come fossero vicende vere e realtà vissute, e forse lo erano davvero.
Sua madre era mancata solo qualche anno prima. La casa ora era sostanzialmente più vuota, ma le sue abitudini non erano cambiate. L’aperitivo con gli amici ogni giorno, la partita di biliardo ogni venerdì sera, e ogni domenica il caffè del dopo pranzo con relativa partita di scopone seguita dal racconto delle sue storie, tutte vicende strane e avvolte dal mistero. Era fissato soprattutto con la storia dell’anima, della sua anima. Era convinto di non averne una, o meglio era convinto di averla persa in un sogno quando gli era apparso un uomo strano che gliela aveva chiesta in cambio del suo desiderio più grande. Gli amici lo stavano sempre ad ascoltare rapiti, ogni volta un’avventura diversa, ma quando riattaccava a raccontare dell’anima, del sogno e del quadro… basta, iniziavano a prenderlo in giro e uno dopo l’altro si alzavano dal tavolino e se ne andavano.
Marco Rampaldi, si ritrovava improvvisamente da solo con le sue parole forse le uniche a cui dovevano credere.
Così trascorreva le sue giornate ordinatamente monotone. Stessi orari, stesso lavoro, stessa strada tutte le mattine e tutte le sere, stesso caffè dallo stesso sapore da 30 anni, stessi amici sul cui volto vedeva il passare il tempo nel suo scorrere eterno. Gli anni si succedevano sempre uguali a se stessi, ma quanto era passato da quando lo trascorrere delle stagioni per lui aveva ancora un significato ed attendeva l’arrivo dell’aria nuova con impazienza?
Era ancora Natale, un altro Natale uguale a quelli precedenti, un Natale che avrebbe trascorso da solo brindando davanti al ritratto della sua donna. Già perché anche se era sempre stato solo Marco Rampaldi aveva amato e amava ancora, di un amore sincero unico e forte.

Lei si chiamava Isella Ferrini. Era il Natale del 1991, lui aveva quarantacinque anni, lei dieci in meno circa. Era una sua collega, dividevano lo stesso ufficio e lo stesso timbro del protocollo.
Una mattina di settembre Isella entrò nella stanza triste e silenziosa del terzo piano degli uffici del comune, l’avevano appena trasferita all’ufficio protocolli. Indossava un semplice abitino blu e aveva i capelli raccolti con una coda. Marco Rampaldi alzò la testa e non riuscì più a staccarle gli occhi di dosso. La guardava, la studiava, ne respirava il profumo quando le si avvicinava, l’avrebbe anche fatta a pezzi, mangiata, divorata pur di poterla avere sempre con sé, dentro di sé. Era diventata la sua ossessione. Non c’era momento nell’arco della giornata in cui lui non pensasse a lei.
Isella era diventata la sua vita, il suo ossigeno, il suo tutto ed ora che si avvicinava Natale voleva farle un regalo speciale. Voleva regalarle qualcosa di unico, qualcosa che solo lei potesse avere e che dimostrasse il suo immenso amore. Tornando a casa la sera si fermava davanti alle vetrine dei negozi illuminate e impacchettate. La gente attorno a lui si muoveva frenetica, la fretta era padrona del tempo, solo lui sembrava padrone del suo tempo e si godeva la dolce sensazione di poter pensare a qualcuno che non fosse sé stesso.
Guardava tutte quelle vetrine, quegli oggetti luccicanti in vendita, ma tutto gli sembrava così vuoto, così privo di significato. Lei meritava tutto il bello del mondo, tutta la perfezione dell’universo. Voleva regalarle qualcosa di immenso qualcosa di così grande da non poter essere contenuto in nessuna scatola regalo per quanto grande potesse essere. Fu così che decise di regalarle l’anima.
Già l’anima. Dopo quel sogno strano non si era più posto il problema di averne una o no. Il signore del sogno, elegantemente vestito gliela aveva chiesta in cambio del suo desiderio più grande. Lui aveva accettato, ma tanto era solo un sogno…
Così decise di regalarle la sua anima, ben sapendo che una volta donata non avrebbe mai potuto più chiedergliela indietro, lui sarebbe appartenuto per sempre a lei.
Quindi si fermò in un colorificio per comprare dei pastelli a olio e un cartoncino telato, voleva farle un ritratto dipinto con le sue mani e colorato con la sua anima. Il proprietario stranamente gli ricordava lo stesso omino del sogno. Lo servì con attenzione e dispensando consigli su come utilizzare al meglio i pastelli.
Marco Rampaldi uscì dal negozio soddisfatto e felice. Camminava anche lui di fretta, sembrava che tutta la città si fosse fermata e che solo lui avanzasse nel tempo e nel freddo della Milano resa evanescente dalla nebbia.
Quella sera non passò dal bar dagli amici, ma andò direttamente a casa. Non cenò neanche. Aprì il sacchetto e ne rovesciò il contenuto sul tavolo. Prese in mano il cartoncino telato, il carboncino e iniziò a fissarlo. Poi chiuse gli occhi respirò profondamente e cercò negli spazi più profondi della sua memoria il volto della sua amata. Sollevò le mani nel vuoto, mosse le dita a immaginare di toccare il viso di lei davanti, ne tratteggiava i contorni come se l’aria dovesse prendere vita e cominciare a respirare. La cercava spasmodicamente, le mani si muovevano lente come se regalassero morbide carezze. Poi improvvisamente aprì gli occhi, davanti a lui il nulla. Prese il carboncino ed iniziò a tracciare dei leggeri e sottili segni.
Lì avrebbe messo se stesso, tra quei segni, tra quei colori, avrebbe legato la sua anima ad un quadro e per sempre sarebbe appartenuto a lei. Lei sarebbe stata sua, lì immobile, ferma, immobilizzata su quel foglio per sempre.
Riuscì a fare ben poco quella sera, a parte delineare l’ovale del volto di lei.
Il giorno dopo si presentò in ufficio con un sorriso nuovo, stava pensando al momento in cui le avrebbe consegnato il ritratto. "Buongiorno Marco" disse Isella entrando nella loro stanza. "Buongiorno a te, Isella" rispose Marco Rampaldi e con occhi la seguiva mentre andava a sedersi alla sua scrivania. Com’era bella pensò, poi riabbassò la testa e riprese a lavorare. Non vedeva l’ora venisse ancora sera per poter continuare il disegno. Ogni tanto furtivamente la guardava come a volerne rubare degli istanti di vita da poter poi fissare sul suo cartoncino.
Lei ogni tanto sentendo il peso di quegli occhi alzava lo sguardo e gli sorrideva, lui abbassava la testa come colto sul fatto e riprendeva a lavorare. Le ore passavano e la sua mente si riempiva di immagini, smorfie, espressioni, nasi, bocche, occhi, sopracciglia, guance, labbra, denti che ridevano, sorridevano, parlavano, sussurravano parole.
Come furono le sei, Marco Rampaldi sistemò la sua scrivania, ripose il timbro, rovesciò su Isella un ultimo sguardo e la salutò. Doveva andare a casa prima che dalla sua mente svanissero tutte le immagini rubate. Doveva fissarle sulla carta, bloccarle nello spazio e rubarle al tempo. Camminava di fretta, la strada verso casa non era mai stata così lunga. La gente che fino al giorno prima era di fretta e di corsa ora gli sembrava andare piano e voler ostacolare il suo camminare.
Finalmente a casa. Aprì la porta, si tolse il pesante cappotto, prese in mano il carboncino ed iniziò a disegnare. Si addormentò sul tavolo e senza cenare quella sera.
Il ritratto era ormai avanzato. Il volto di lei era abbozzato ora doveva solo darle vita, doveva dare un’anima a quegli occhi vuoti, doveva dare la sua anima.
Marco Rampaldi arrivò leggermente in ritardo quella mattina in ufficio. "Buongiorno Marco, sei in ritardo questa mattina. E’ successo qualcosa?" chiese preoccupata Isella.
"Buongiorno a te Isella. No, solo non ho sentito la sveglia. Tu come stai? Mi sembri sciupata e stanca, tutto bene?" rispose.
"In effetti è da un po’ di giorni che non mi sento molto bene, ho una grande senso di spossatezza, come se avessi sempre meno energie, sarà un po’ di influenza."
Lui la guardò bene, gli occhi di lei un tempo allegri e vivi, ora erano cerchiati e spenti. Le labbra rosse e invitanti si erano spente e avvizzite. Tutta quella vita che un tempo sembrava muoversi con lei e seguirla in ogni sospiro non c’era più.
La giornata passò come al solito, lei china sulla scrivania sempre più stanca e lui a fissarla e a rubarle istanti di vita. Vennero come ogni sera le sei. Chiuso l’ufficio, Marco quasi senza salutare Isella uscì. Il finire il ritratto era diventato per lui la cosa più importante, era la sua ossessione. Arrivato a casa riprese il disegno e fissò quegli occhi vuoti e spenti. Mancava poco perché il ritratto fosse finito, mancava solo un sospiro, mancava la vita, mancava l’anima. Lo guardava fisso, seguiva con il dito il contorno di quel viso perfetto, lo amava, eccome se lo amava. Era tutto per lui, era lei e basta.
I giorni si succedevano come sempre lui sempre più affamato di lei e lei sempre più consumata dagli sguardi di lui. Lui sempre più forte e lei sempre più debole.
Una sera, poco prima di Natale, finalmente Marco riuscì ad animare quegli occhi vuoti. Il volto improvvisamente si rivestì di un’anima. Lo sguardo triste di quel disegno sembrò improvvisamente fissarlo e non volerlo più abbandonare. Sembrava implorarlo di restituirgli i sogni, la vita. Finalmente c’era riuscito.
L’anima, la sua anima che aveva così ceduto in sogno ora gli permetteva di realizzare il suo desiderio più grande. Aveva fatto quel ritratto per regalarlo a lei, ma ora era lei che si regalava a lui. Questo era il prezzo della sua anima. Isella era ora sua, era lì su quel pezzo di carta e nessuno avrebbe mai potuto portargliela via.
Improvvisamente Marco si ritrovò solo, con lei su un pezzo di cartoncino. Lui che voleva regalarle un’anima che ormai non gli apparteneva più senza accorgersene l’aveva rubata a lei, strappandola alla vita, al ricordo degli altri, portandole via l’essenza del suo essere, del suo tempo e del suo spazio. Era come se lei non fosse mai esistita, era scomparsa nel nulla della vita per esistere immobilizzata nel tempo su un semplice pezzo di carta. Nessuno si sarebbe mai ricordato di lei perché lei non era mai stata, ma era solo per lui e di lui.
Il mattino dopo Marco come ogni sempre si recò in ufficio. "Buongiorno Marco." Disse Grazia. "Buongiorno a te Grazia. " rispose Marco. Di Isella nessuna traccia, nessun ricordo, come se non fosse mia esistita. Lei che era stata ora apparteneva a lui nel suo non essere più.

venerdì 3 agosto 2007

I Litchis


“Accipicchia, sono già le 6” esclamò Cesarina “eziandio oggi il tempo è volato. Spengo l’elaboratore elettronico poi vado.” e correndo sotto un cielo nubiloso per evitare l’acqua, senza cedere ad alcun diporto se ne andò dritta a casa.
Cesarina era così, quasi cinquanta anni, un “marito cretinetti” di sordiana memoria, un figlio, ed una piccola ditta specializzata in denocciolamento di olive e ciliegie.

Quello era un giorno come tanti ed entrando in casa, Cesarina si trovò il figlio Gianni inginocchiato dietro il divano avvolto in un lenzuolo bianco, con le braccia sul petto e la testa china su un lato. “Perbacco, Gianni levati da dietro il divano e vatti a vestire, sei assolutamente raccappricciante!” gli disse.
“Ma mamma, sto entrando nella parte dell’Imago pietatis di Bellini! Per l’esame di ammissione al corso di teatro devo portare la rappresentazione di un’opera pittorica, come sei antica e desueta” rispose il figlio.
“Ma fammi il piacere, più che l’Imago pietatis mi sembri l’Imago barbonis. Impara un mestiere serio! Anche l’allibratore piuttosto che vederti con quella maestranza …Ecco tuo padre, lui sì che riesce bene nella rappresentazione dell’imago del pitocco” e nel dire ciò si sistemava i capelli scompigliati dall’aria procellosa.
“Buondì a tutti, che nembi in cielo, nevvero?” disse egli entrando con aria lassa come sovente accadeva.
“Perdincibacco eccone un altro buono… buondì, buondì, ma se sono le sette di sera!” sottolineò Cesarina.
“Vabbè allora buonasera cara. Tutto bene in ditta? Ti hanno consegnato la nuova denocciolatrice per litchis…?” chiese il buon marito.

Cesarina si voltò di scatto e cercando di non perdere la Trebisonda piantò le dita come un rostro nello schienale della poltrona, poi appropinquandosi al marito rispose : “Quindi è a Voi che debbo codesta splendida macchina! Immagino che ora sarete satollo di cretinate fatte!”
Il marito sapeva bene che quando la sua adorata moglie iniziava ad usare la seconda persona plurale, il tono vagamente ironico e le si dilatavano oltremodo le narici era meglio nascondersi e risponderle sempre “si cara, si cara”. Quindi allontanatosi bastevolmente per non udire le sue urla con voce desultoria esclamò:”Si cara, sono stato io ad ordinarla. Ho parlato con il Signor Won che ci assicura che il mercato dei litchis è in crescita. Pensa che di sguincio sono riuscito ad ottenere quel prezzo”.
“Macchè litchis e litchis, ma mi vuoi mandare a ritrecine. Senti stupidotti, calcolatore alla mano secondo te quanti contratti con coltivatori di litchis in Italia potremmo firmare? O pensi che codesto garrulo Signor Won, Ton, Mon o quel che l’è possa fornirti anche di litchis?” con fare pugnace si avvinava sempre di più al marito.
“Ma cara, mi sembrava un affare ottimo. Abbi speme. Il litchis sarà il frutto del 2010 così come il kiwi lo è stato per gli anni ’80 del ‘900.” Poi voltandosi si accorse del figlio avvolto nel lenzuolo “Che è? Cesarina che ci fa nostro figlio seminudo dietro il divano, pare un barbone”
“Sto provando la rappresentazione dell’Imago pietatis di Bellini, mica vorrai che io faccia fiasco all’esame davanti a tutte le donzelle!” rispose Gianni
Rompendo gli indugi Cesarina disse rassegnata: “Vabbè ho capito vado a preparare dei manicaretti. Tu Gianni vatti a vestire, la sola ricordanza di te così mi fa tristezza e tu stupidotti con la tua plenitudine di intelligenza vai a lavarti le mani”. E la serata riprese a scorrere normale, come sempre o quasi.

lunedì 11 giugno 2007

Ufficio condoni


Ufficio Condoni
Così c’era scritto sulla targa in ottone attaccata alla porta. Una grande porta di legno. Oreste Titoni, anzi il signor Oreste Titoni, continuava a guardare e a riguardare quella targa, non capiva.

Da quanto tempo era lì? Non se lo ricordava più. La luce era una luce fredda e artificiale. Il corridoio dove si apriva quella porta era pieno di altre porte altrettanto grandi e con sopra altrettante targhe, ognuna delle quali indicava un ufficio diverso: ufficio prestiti, ufficio concessioni, ufficio crediti, ufficio reclami e così via…
C’era molta gente. Gente che arrivava, gente che prendeva il proprio numero di prenotazione, gente che aspettava seduta composta e in silenzio, gente che entrava negli uffici, ma nessuno che ne usciva se si escludono quelli che venivano trascinati via a forza da uomini vestiti con una divisa nera con cappello rosso. La cosa strana che però aveva notato il nostro signore era che nessuna delle persone che aspettava il proprio turno desse particolare attenzione a quello che succedeva attorno, era indifferente a quelle urla dei disperati. La gente continuava ad arrivare, prendeva il proprio numero e diligentemente si metteva a sedere davanti alla porta dell’ufficio presso cui doveva andare.

Lo stesso aveva fatto il signor Oreste Titoni, solo che non si ricordava più né il motivo, né come era arrivato fin lì, non sapeva neanche a che piano fosse di quel palazzo che sembrava immenso. Un largo e lungo corridoio si distendeva all’infinito davanti ai suoi occhi, i soffitti altissimi, nessuna finestra, illuminato da grandissimi lampadari, le pareti tinte di un grigio chiaro, il pavimento in graniglia bianca e nera. Lungo i lati del corridoio, oltre alle innumerevoli porte erano disposte delle sedie. Sedie vecchie, in legno che scricchiolavano al minimo movimento delle più o meno ingombranti terga delle persone che sostenevano.

Il signor Oreste Titoni, si andò a sedere anche lui, guardò il numero che aveva in mano, 8008, guardò la macchinetta contanumeri vicino alla porta, 7043 e sospirando pensò che ne aveva di tempo da aspettare per il suo turno, nel frattempo si sforzava di ricordarsi il perché fosse proprio lì davanti a quell’ufficio condoni. Doveva condonare qualcosa? Proprio non se lo ricordava.
Girò la testa per guardarsi attorno. Tutto si svolgeva nel più grande ordine. Faceva da sottofondo il rumore dei timbri pestati a forza sulle pratiche archiviate, ogni tanto qualche bisbiglio delle persone che aspettavano e qualche urlo straziante proveniente dagli uffici. I corridoi si riempivano anche del rumore dei passi dei poliziotti che andavano avanti e indietro. Sembravano tutti uguali, altissimi, con una divisa nera pece e il cappello rosso fuoco calato così tanto sulla testa che era impossibile riuscire a vederne gli occhi. A volte si fermavano davanti a qualcuno si facevano mostrare il bigliettino con il numero di prenotazione e poi chiedevano di seguirlo, il poveretto si alzava senza dire una parola e a testa bassa si allontanava con loro. Dove venisse portato non lo sapeva nessuno, ma sembrava che a nessuno importasse.
Così come nessuno mostrava nessun cenno di turbamento quando gli stessi poliziotti trascinavano fuori a forza le persone dagli uffici, prendendole sotto le braccia e incuranti delle urla e della resistenza. Che cosa assurda pensava il nostro signor Titoni.

Il tempo passava, ma allo stesso tempo non sembrava mai passare, il fatto che non ci fossero finestre rendeva la situazione ancora più surreale. La luce artificiale trasformava quel posto in un luogo freddo e senza tempo.
Mentre aspettava diligentemente Oreste Titoni, notò un uomo che avanzava lento verso la porta dell’ufficio condoni. Anche lui prese il suo bel bigliettino della prenotazione, anche lui buttò una rapida occhiata alla macchinetta contanumeri, anche lui sospirò per poi, rassegnato, andarsi a sedere accanto al nostro signore.
“Mi scusi, che numero ha lei?” chiese con cortesia
“Ho l’8008” rispose Titoni
“Sarei troppo villano se le chiedessi di farmi passare avanti, io ho il 9067… e avrei alcune faccende importanti da sbrigare. Non posso permettermi di perdere tempo qui” domandò l’uomo.
Il signor Titoni stava per rispondere con garbo che sostanzialmente non era un problema suo e che 1000 numeri in più da aspettare erano troppi, quando si avvicinò uno dei gendarmi dal cappello rosso.
“Tutto bene? Ci sono problemi?” domandò.
“No, no tutto bene” rispose l’uomo “ho solo chiesto se fosse possibile cambiare numero di prenotazione e basta. Anzi lo chiedo a lei…è possibile passare avanti? Sa ho degli impegni inderogabili e devo essere fuori di qui al più presto.” continuò.
“Quindi vuole uscire di qui e al più presto. Aspetti che vado a informarmi” rispose il poliziotto. Poi si allontanò con passo lungo e andò da un altro gendarme, gli sussurrò qualcosa all’orecchio, indicò con la mano il signore e insieme si riavvicinarono.

“E’ lei che vuole uscire al più presto di qui ?“ chiese il nuovo poliziotto con voce che non tradiva la benché minima emozione.
“Allora è possibile?” domandò l’uomo con insistenza.
“Ci segua” disse fredda e perentoria quella specie di guardia vestita di nero e con il cappello rosso così calcato sulla fronte da non far vedere gli occhi “ci segua senza fare storie”.
“E dove mi portate” il signore improvvisamente si inquietò
“Ci segua e basta”
L’uomo si alzò, i due poliziotti si misero ai suoi fianchi e scortandolo si allontanarono fino a perdersi nell’infinito corridoio.

Oreste Titoni guardò la scena quasi incredulo. Dove lo stavano portando? Possibile che nessuno dicesse o chiedesse nulla? Nel frattempo il contanumeri appeso vicino alla porta segnava 7368. Andavano veloci con le pratiche nell’ufficio condoni, ancora un po’ di pazienza e sarebbe stato il suo turno. La cosa strana è che non aveva visto nessuno uscire, “si vede che le persone entrano sbrigano le loro questioni per poi uscire da un’altra porta” pensò. Si guardò nuovamente attorno, tutti erano composti e silenziosi, solo alcuni parlavano a voce bassissima avvicinandosi alle orecchie. Qualcuno leggeva delle riviste che erano a disposizione su piccoli tavolinetti. Anche il nostro signore ne prese una ed iniziò a sfogliarla.

7686. Andavano proprio veloci in quell’ufficio, tra poco sarebbe stato il suo turno. Già 300 pratiche in quanto tempo? Oreste Titoni non lo sapeva, non era in grado di quantificarlo, il suo orologio si era improvvisamente fermato e alle pareti non ce n’erano, aveva chiesto l’ora al suo vicino di sedia, ma lo aveva dimenticato a casa, quindi si rimise a leggere la sua rivista. Il silenzio e la calma apparente di quel posto furono improvvisamente rotti dalle grida ossesse di un poveretto che veniva trascinato fuori dall’ufficio concessioni dai soliti due poliziotti.
Il nostro signore alzò di scatto la testa e si guardò in giro per cercare lo sguardo di altri ed avere una risposta a quello che stava succedendo, ma tutti avevano la testa bassa. I due gendarmi avanzavano afferrando per le spalle l’uomo che opponeva resistenza con tutte le sue forze e urlava disperato che non voleva andare con loro.
Il tragico gruppo si avvicinava le due guardie sembravano più alte e grosse delle altre, anche loro non si riusciva a vederle in viso. Quando furono abbastanza vicino Titoni ebbe l’impressione che non avessero mani, ma che afferrassero quel poveretto con delle specie di zampe pelose, nere e con degli artigli che sembravano conficcarsi nella carne del mal capitato. Improvvisamente un dei due poliziotti sentendosi osservato si girò di scatto e fissò per qualche secondo il nostro signore negli occhi, ma non erano occhi normali quelli che guardavano. Titoni ebbe la netta impressione che fossero piccole scintille di fuoco ed ebbe paura, abbassò la testa come gli altri e sentì un brivido gelato scorrergli lungo la schiena.

7834. La gente continuava ad entrare e a non uscire, dai vari uffici che si aprivano sul corridoio come bocche ingoia uomini. Ancora 200 numeri circa e poi sarebbe toccato a lui, ma continuava a non ricordarsi che cosa dovesse condonare, sperava solo che al momento giusto gli sarebbe tornato in mente. Finita la rivista ricominciò a guardarsi attorno. La sua attenzione venne catturata da una donna. Improvvisamente si rese conto che lì, in quel corridoio, erano solo uomini, di tutte le età, ma soltanto uomini. La donna avanzava elegante. Doveva essere un’impiegata, gambe lunghe e slanciate, scarpe con tacco, gonna blu, camicia azzurra, capelli castani raccolti dietro la nuca, occhiali che incorniciavano gli occhi azzurri. Camminava con passo sicuro, guardava dritta davanti a sé, in mano teneva un pacco di fogli.
Un uomo alzandosi dalla sua sedia la fermò per chiederle qualcosa, lei rispose sorridendo per poi riprendere la sua camminata sicura. Improvvisamente arrivarono i soliti due gendarmi, si avvicinarono all’uomo ed iniziarono a fargli domande. Anche se era seduto lontano Oreste Titoni poteva percepire l’ansia e la paura che stava salendo nell’anima di quel poveretto. La donna quando si accorse di quanto stava accadendo tornò indietro, si avvicinò alle due guardie, sussurrò qualcosa nell’orecchio di una, poi guardò il signore sorrise e si incamminò nuovamente con passo lungo. I poliziotti senza dire nulla si allontanarono anche loro, nella direzione opposta. Il sospiro di sollievo dell’uomo sembrò improvvisamente risonare in tutto il corridoio. Ovviamente nessuno sembrava essersi accorto della scena tranne il nostro signore.
La donna avanzava sicura, con il pacco di fogli sotto il braccio, si avvicinò alla porta dell’ufficio condoni, bussò ed aspettò che le dessero il permesso di entrare. Oreste Titoni era seduto proprio dietro di lei e con sconcerto si accorse che da sotto la gonna spuntava qualcosa che si muoveva lenta, morbida e sinuosa. Chiuse gli occhi, li riaprì e riguardò quella cosa che sembrava una coda, lunga, sottile e che terminava con una specie di aculeo. Dall’ufficio si sentì un “avanti”, la donna abbassò la maniglia ed entrò chiudendo la porta dietro di sé e alla sua lunga coda. Il nostro signore era sempre più inquieto. Domande su domande cominciarono ad affacciarsi alla sua mente, perchè era lì? che posto era quello? Come c’era arrivato? Cosa doveva fare esattamente? Non riusciva a dare una risposta che avesse senso a nessuna di quegli interrogativi, sapeva solo che non riusciva ad andarsene via, era come se una forza spaventosa lo tenesse bloccato lì su quella sedia, sapeva solo che doveva aspettare il suo turno.

8008, come ubbidisse ad un comando misterioso Oreste Titoni si alzò, guardò il suo numerino di prenotazione, guardò il contanumeri e sospirò. L’attesa era finita.
Bussò alla porta, non aspettò l’avanti ed entrò. La stanza era lunga e stretta, sulla destra un grande tavolo con dietro seduto due uomini vestiti di grigio. La donna che aveva visto entrare prima era seduta ad un tavolino vicino ad un’altra porta speculare a quella per cui era entrato.
“Prego si segga” invitò uno dei due funzionari e continuò “dunque lei è la pratica Titoni n° 342376/U-j. Vediamo un po’…deve condonare qualcosa?”
Il nostro signore si sedette di fronte a loro, si sentiva a disagio, continuava a non ricordare.
“Non ricordo. So che è strano, ma veramente non ricordo. A essere sincero non so neanche perché io sia qui e come ci sono giunto.” rispose.
I due uomini in grigio si guardarono, si dissero qualcosa all’orecchio e poi quello che sembrava il più anziano riprese “davvero non ricorda come è finito qui e perché?”
“Davvero, mi sono trovato qui davanti a questa porta con il numero della prenotazione in mano, ma non so dire come ci sia arrivato, nè dove io sia esattamente” aggiunse Titoni.
La donna intervenne nella discussione chiedendo se dovesse avvertire le guardie che c’era una pratica per loro.
I due funzionari nuovamente confabularono, poi facendo cenno con la mano all’impiegata di aspettare ripresero “però si è fermato non se ne è andato o ha chiesto in giro informazioni”
“No, non ho chiesto nulla, non so neanche perchè. E’ come se sapessi che in un modo o nell’altro questo fosse il mio destino, dovevo entrare in questa stanza, dovevo… dovevo… ed ora sono qui, ma proprio non so cosa devo condonare.”
I due uomini si guardarono negli occhi e quello che sembrava il più anziano annuì con la testa e aprì la pratica. “Vediamo di risolvere noi la faccenda. Evidentemente c’è stato un increscioso contrattempo, ma lei non c’entra.”
“Contrattempo? Di quale contrattempo sta parlando?”
“Vede mi caro signor Titoni, lei se ne è andato prima del tempo, si parla di frazioni infinitesimali di microsecondi, ma quanto basta per creare questo stato di confusione. Lei sa bene che doveva venire qui perché aveva delle cose da fare, infatti non se ne è andato, ed è rimasto al suo posto, ma non ricorda cosa dovesse fare.”
“E se avessi iniziato a fare domande o avessi cercato di andarmene?” domandò incuriosito Titoni,
“Sarebbero intervenute le guardie. Le avrà viste fuori, passano continuamente avanti e indietro per il corridoio”
“Sì, sì le ho viste…ma dove portano gli uomini che se ne vanno con loro e quelli che vengono trascinati fuori dagli uffici?”
“Vedo che non ha neanche capito dove si trova esattamente, sempre per quel disguido temporale. Signor Titoni, questa è una stazione di transito, tra un luogo e l’altro, qua vengono sbrigate tutte pratiche necessarie per poter passare dall’altra parte, sempre che uno risulti idoneo…ovvio!”
Titoni, si guardò attorno perplesso, anche lì non c’erano finestre, la donna in fondo alla stanza gli sorrideva gentilmente e da sotto il tavolo poteva vedere la coda che si muoveva.
Adesso piano piano cominciava a capire e a ricordare. Quella mattina si era alzato alla solita ora, aveva fatto colazione, si era preparato per andare in ufficio, aveva dato una carezza alla moglie prima di uscire e poi una fitta. Una fitta terribile atroce che gli tolse l’aria, la luce, i rumori, gli odori, il calore, la vita. Si sentì afferrare da mani fredde che lo trascinavano giù sempre più giù. Era buio attorno. Quando rivide la luce era fermo in piedi davanti alla porta con il numerino in mano. Capì.
“Sono morto allora...” disse con rassegnata accettazione.
“Si signor Titoni, lei è morto. E la sua confusione è data dal fatto che è arrivato qui leggermente in anticipo, su quanto fosse programmato per lei.”
Improvvisamente capì il perché di tutti quegli uffici, gli uomini che aspettavano avevano dei conti in sospeso e in quella stazione di transito tutto doveva venire saldato prima di proseguire e se non si poteva saldare, la pratica passava a quelle guardie dalle mani pelose e ad artiglio. Loro prelevavano i morosi e li trascinavano via, ma dove? All’Inferno?
“Sappiamo a cosa sta pensando. Sì signor Titoni, in questa stazione angeli e diavoli lavorano insieme. Ciascuno sbriga il suo compito, valutiamo i singoli casi e poi decidiamo se sono idonei al passaggio o no. In caso negativo avvertiamo le autorità competenti e i poveretti vengono trascinati a forza all’Inferno. Le guardie che invece ha visto nel corridoio hanno il compito di controllare tutti per evitare spiacevoli atti di insubordinazione. Sa a volte capita che uno faccia domande fuori luogo o voglia e tenti addirittura di scappare da qui ed allora loro intervengono portandoli via.”
Uno dei due funzionari appoggiò le mani sul tavolo, ma non erano mani erano le stesse cose che aveva visto ai poliziotti, delle specie di zampe nere con artigli lunghissimi. Titoni spaventato guardò negli occhi l’altro che invece sembrava avere una specie di aurea luminosa attorno alla testa, quindi si voltò verso la donna che continuava a sorridergli, le guardò la lunga coda arrotolata su una delle gambe del tavolino.
“Non si spaventi, andiamo tutti d’accordo qui, angeli e diavoli che insieme, sembra assurdo vero? Ma gliel’ho appena spiegato, questa è una stazione di transito, non ci facciamo la guerra, ma collaboriamo gli uni con gli altri per accelerare le pratiche che continuano ad arrivare senza un attimo di sosta” il funzionario guardò negli occhi il suo vicino e poi riprese “dunque vediamo un po’ stando a quello che c’è scritto lei è a posto con i condoni. Può proseguire il suo viaggio. Vada dalla nostra segretaria e si faccia mettere un timbro sulla sua pratica, poi passi pure dall’altra parte” e con la mano artigliata gli indicò la porta sul fondo della stanza.
Oreste Titoni, anzi il signor Oreste Titoni, si alzò ringraziò, si avvicino alla donna dalla lunga coda, le consegnò l’incartamento. Un timbro cadde pesante sulla carta, la porta si aprì e lui entrò. Tutto era terribilmente buio, non si vedeva nulla, solo una voce si sentiva: “entra, entra nel buio del nulla. Il tuo viaggio è finito ed ora puoi riposare nella notte dell’infinito”.

La fabbrica dei ricordi


Ricordo poco. Faccio fatica anche solo a ricordare il mio nome…mi sembra Agata Palombo. Penso di chiamarmi così, ma non ne sono sicura. Che cosa strana non ricordo neanche da quando non ricordo, già perché se non ricordo non posso ricordare, logico.
Per avere memoria di quello che mi passa attorno mi trovo a dover appuntare tutto quanto mi succede su piccoli pezzi di carta per poi dimenticarmi anche dove li ho messi.

Una malattia? No, nessuna malattia, solo la vita. Ho vissuto a lungo, così a lungo da non ricordare più neanche da quanto. Ogni tanto rovistando tra i cassetti di casa trovo qualche appunto con scritte delle date, allora riesco ad avere dei punti fermi. Nel 1965 c’ero già! Ma avevo dei ricordi? Non lo so, non ricordo. Buffo?

Sono una donna matura ormai, non anziana, ma matura si. Ogni giorno mi guardo allo specchio per ricordarmi come sono fatta. La cosa bella di questa malattia è che non ricordandomi come ero non sento il peso della vecchiaia che avanza, ogni giorno mi guardo sempre con occhi diversi e nuovi. Però l’età avanza e anche se non mi ricordo il passare del tempo, questo scorre lo stesso.

Non so se ho mai amato qualcuno. Non penso neanche di avere dei figli. Oppure sì. Poco fa è stato a trovarmi un uomo con un bambino piccolo in braccio con degli occhi azzurri come il cielo, questo me lo ricordo. Devo quindi ricordarmi di scrivere che questo me lo ricordo. Almeno so cosa mi sono ricordata e cosa mi devo ricordare.

Casa mia è piena di fotografie, immagino che alcune siano mie, ma non ne sono sicura, ho dovuto catalogarle tutte aggirandomi per casa con uno specchietto, mi guardavo poi guardavo la foto e se mi riconoscevo attaccavo un’etichetta sulla cornice. Nelle immagini dove non mi riconoscevo mettevo, invece, un semplice punto di domanda, nella speranza di poter un giorno ricordare chi fosse.

Ricordo poco. Non so se è un bene o un male rispetto a quelli che ricordano. I ricordi possono essere pesanti da sopportare, ma almeno danno la consapevolezza di aver vissuto. Io non avendone non so se ho vissuto, non ricordando neanche la mia età, è come se non fossi mai nata. Già è come se io non avessi un tempo. I ricordi misuratori del tempo che passa. Più ricordi uno ha, più ha vissuto e se non ne ha? Vuol dire che non ha vissuto? Mi guardo allo specchio, i segni sul mio volto tradiscono una certa abitudine alla vita, eppure non ricordo nulla.

La vita. Ogni tanto ci penso. E se non avessi mai vissuto e se fossi solo una proiezione? In fondo non ricordo nulla. Per quanto ne so tutto attorno a me potrebbe essere solo un’idea. Per me conta solo il presente, ma si sa che il presente è tale in funzione del passato che invece è, ma se io non ho passato come posso dire di essere?

La morte. Ogni tanto ci penso. Cosa mi succederà, avrò la coscienza di morire? Però se non ho la coscienza di aver vissuto in teoria non dovrei avere neanche la sensazione di morire. Meglio, non mi piacerebbe l’idea di essere sepolta, magari viva per un errore dei medici e mangiata dai vermi come “Re Orso” di Boito. Potrei farmi cremare…sì, questa mi sembra una buona idea. Bisogna che me lo scriva da qualche parte così me lo ricordo. Anzì scriverò di ricordarmi di scrivere che voglio essere cremata sullo specchio in ingresso così non mi dimentico di dove ho messo il biglietto che mi deve ricordare che voglio essere cremata. Sarebbe poco carino marcire sotto terra, eppoi io odio i cattivi odori e l’umido.

Suona la porta, strano non ricordavo di aspettare qualcuno, ma tanto io non ricordo mai nulla.

“Ciao mamma, come stai oggi? Meglio? Mettiti il cappotto che ti porto alla Fabbrica per il Live up date annuale dei ricordi. Vedrai che poi starai meglio e ti ricorderai tutto di nuovo”.

sabato 19 maggio 2007

La Marcia


Dei vivi nel mondo
Il verme striscia nel fondo
Dei morti nel mondo
Il verme s’alza dal profondo
”.

Il ritornello di una canzone senza tempo sempre uguale per tutto l’eterno. Nata con il tempo, finirà con il tempo e nel non tempo anche l’eterno non esisterà più.
La si conosce da sempre, viene insegnata dalle madri ai figli. Cantata da tutti prima o poi, anche dai più stonati. Nata con l’uomo finirà con l’uomo, se mai l’uomo avrà una fine.

Loro la cantano sempre quando stanno per partire. Si mettono in fila per tre e cantano. Il loro coro a volte si sente fin quaggiù a valle come un’eco lontana spinta dal vento. Anche lei lo sente ogni tanto e quando questo accade si ferma e ascolta. Chissà se fra quelle voci c’è anche lui. Lui, il suo amore è partito. Improvvisamente se n’è andato, l’ha salutata come se niente fosse, le ha voltato le spalle ed è andato dall’altra. Vigliacco!

Dei vivi nel mondo - Il verme striscia nel fondo. Dei morti nel mondo - Il verme s’alza dal profondo”.
Così canta ancora il coro degli uomini in marcia in fila per tre. La Signora sorride, è lei che guida la lunga ed interminabile fiumana umana. Lei è colei che è. Non puoi resisterle. Lei è bella, affascinante, elegante. Lei ti seduce, lei ti conquista. Nasconderti non puoi lei ti trova ovunque e viene a reclamare i suoi diritti.

“Mamma” piange la bambina. “Moglie” piange il giovane marito. Nessuna voce risponde.
La giovane sposa e già madre, ha unito la sua voce a quella del coro e la si può sentire in lontananza nel silenzio del vuoto che ha lasciato. La Signora le darà la pace tanto desiderata? Sarà felice ora? “Mamma, guardami. Smetti di marciare anche solo per un attimo. Fermati e guardami. Mi vedi? Mi senti? Ti ricordo giovane, ti ricordo adulta ma ancora ragazza, tra poco sarò più vecchia di te. Buffo, vero? Prima o poi verrò anche io al tuo fianco a cantare con te”.

Dei vivi nel mondo - Il verme striscia nel fondo. Dei morti nel mondo - Il verme s’alza dal profondo”.
Lei ti è sempre vicino. Lei non ti tradisce. La Signora ti seguirà in silenzio, a volte ti aiuterà a rimetterti in piedi soltanto sfiorandoti, altre ti raccoglierà e ti porterà nel suo grande immenso coro. La Signora non ti abbandonerà mai. Lei è la più amorevole delle madri, la più caritatevole delle sorelle, la più fedele delle spose. Lei verrà, lei dolcemente si avvicinerà e tu lo saprai. Lei ti si presenterà un giorno e canterà dolci parole sussurrate all’orecchio: “Non ora non adesso, ancora un respiro ti è concesso. Quando sentirai il tuo cuore suonare, sarà allora l’ora di andare. Senti il coro sta ancora cantando, ed insieme a loro partirai marciando.”

La stessa filastrocca ha accompagnato gli ultimi giorni dell’anziano medico. Lui ha curato, lui ha salvato. Lui l’antico rivale della Signora. Adesso si trovano al duello finale. Lei è così bella e lui è così debole, ma non ha paura. Con compassione e con affetto lei gli sta accanto, ora sua compagna fedele nel non essere più.
“Papà” piange il figlio già adulto “i miei occhi di figlio ti vedevano sempre giovane anche nel passare degli anni. Hai curato gli altri, li hai difesi dal fatale abbraccio della Signora. Hai concesso alle madri di abbracciare il loro frutti. Ed ora anche tu hai ceduto al suo fascino. Senti…..la grande marcia si è fermata e per qualche secondo ha smesso di cantare per aspettarti.”

Dei vivi nel mondo - Il verme striscia nel fondo. Dei morti nel mondo - Il verme s’alza dal profondo
Lei ti compare davanti all’improvviso. Lei si insinua silenziosamente nella tua vita. Tu non potrai farne a meno. Lei ti strega con i suoi occhi azzurri. Lei ti seduce con il suo morbido ed accogliente corpo. Lei governa con le sue lunghe ed eleganti mani i tuoi pensieri ed i tuoi gesti. Lei respirerà il tuo respiro con la sua calda bocca. Tu la vorrai, tu l’avrai e nel suo coro tu andrai.

Dei vivi nel mondo - Il verme striscia nel fondo. Dei morti nel mondo - Il verme s’alza dal profondo
Cantano e marciano, in fila per tre. Lei davanti sorride è bella, altera, gli occhi tristi, è sola.
L’esercito dei suoi amanti, delle sue sorelle, dei suoi figli non la lascerà mai. Ma lei è sola nessuno verrà mai a prenderla, nessuno la sedurrà sussurrandole alle orecchie: A prenderti io verrò e con me ti porterò. Ove il verme dal profondo s’alza e il corpo nel fondo avanza, la tua anima più non colerà e la pace troverà. Quando il tempo sarà finito e l’eterno non sarà mai esistito.

venerdì 18 maggio 2007

Ti ricordi di me?


Ti ricordi di me? Ti ricordi? È importante per me, devi dirmelo se te lo ricordi.
Era agosto, faceva caldo, era domenica, era da tanto tempo che non ti vedevo.
Se mi chiedi il perchè del tutto, ti risponderei semplicemente “perché si”, “perché mi piacevi”. E in fondo perché non dovresti piacermi tu che piaci a tutte o quasi? Ma io ti piacevo? Chissà, non l’ho mai capito.
Sento ancora nelle orecchie la tua voce che mi chiamava per nome per correggermi le manovre al timone della barca a vela. Non mi guardavi, non guardavi neanche la vela, ma sentivi… ah se sentivi. Nulla ti sfuggiva, mi richiamavi sempre alla giusta andatura.
Il mio nome pronunciato da te mi è sempre piaciuto, non so perché. È strano ci si sente sempre chiamare eppure soltanto ad alcune voci rispondiamo veramente. Sappiamo distinguere tutte le voci che conosciamo eppure soltanto alcune sanno farci vibrare dentro. Sarà forse la particolare intonazione, la particolare pronuncia, o forse la particolare inflessione? Ma questo non ha nulla a che vedere con l’amore, nulla, ma solo con il sentire, e forse è un bene.
Ti ricordi quest’estate? Una domenica notte dei primi di agosto. Faceva caldo, c’erano le stelle che ci facevano da coperta. Eravamo sul mio terrazzo. Non abbiamo parlato tanto quella volta, è difficile parlare con te anche se i tuoi silenzi parlano per te, parlano di te.
Ricordo ancora le tue braccia che mi stringevano e le tue mani su di me, mani che ho ritrovato poco tempo fa. Mani calde, dolci, sapienti, mani che non potrò dimenticare così come la tua voce. Ricorderò anche quando al mattino mentre dormivi, non so se te ne sei accorto, ti ho appoggiato la mano sulla testa e ti ho accarezzato come a voler fermare qualcuno dei tuoi mille pensieri. Non so se ti ricordi, penso di si, non mi hai dimenticato, vero?
Quindi dimmelo se ti ricordi di me? Ti ricordi? E’ importante per me, devi dirmelo se te lo ricordi, perché solo nei ricordi si ha la certezza di aver vissuto e di essere stati. Nei ricordi degli altri si avrà la vita e perché no il per sempre. Il nostro ricordo finisce con noi, ma quello degli altri continua.

lunedì 30 aprile 2007

Impressioni

Finalmente M. era arrivata. Era particolarmente provata dal viaggio, tutto quel traffico l’aveva stancata ed ora voleva solo rilassarsi e stare un po’ per conto suo. Faceva caldo, il caldo che si ricordava da bambina, umido, soffocante, ma allo stesso tempo dolce e rassicurante. Era finalmente a casa, a Salgareda e non vedeva l’ora di andare a fare una passeggiata per il giardino e respirare un po’ di aria pulita. Aveva i polmoni inquinati e forse non solo quelli.

Tutto era rimasto uguale, solo lei era cambiata da quando era bambina e correva per quegli stessi prati. Lì aveva trascorso le estati, ed alcuni Natali ed Epifanie. Lì per la prima volta aveva assaggiato il chinotto, lì andava a raccogliere le nocciole a fine agosto e in primavera gli “sciopetti” per il risotto. Lì c’era ancora sua madre, suononno e tutti quelli che in un modo o nell’altro avevano attraversato la sua vita anche se solo perché raccontati da altri.

Aveva deciso di attraversare il giardino e di andare in “Casetta Vecchia” per farle prendere un po’ d’aria. La “casetta vecchia” quanta storia aveva visto, due guerre mondiali e tutta la nostra famiglia. Le piante erano sempre quelle, gli odori anche. Ogni tanto una gallina chiocciando attraversava il vialetto di corsa, le sembrava ancora di vedere la Diana, una cockerina nera, e il Signor Facen, il suo padrone con la pipa in bocca, ma in realtà era solo un’impressione.
Che cosa strana i ricordi. Si pensa sempre che siano unici, e che nessuno possa capirci quando ci facciamo prendere dalla malinconia, ma in realtà non sono mai unici proprio per il semplice fatto che noi non siamo gli unici a essere. Il Signor Facen aveva attraversato la vita di tante persone, quella di suo nonno, quella di suo padre e per una piccola parte anche la sua.

Arrivata alla fine del vialetto camminava ora sulla fastidiosa ghiaia, i sandali non l’aiutavano e i sassolini le si incastravano sotto le piante dei piedi provocando dolore. Sulla sinistra la grande gabbia per gli uccelli con la porta aperta, la fontanella con due anatre dentro a sguazzare e a destra i noccioli. Un’altra impressione: il vecchio tavolo in legno da ping-pong che il papà d’estate montava.
Eccola, la Casetta Vecchia. Era arrivata. Un tempo la chiave era nascosta in un piccolo vaso appeso alla parete, ora non era più lì. Istintivamente alzò gli occhi e la mano come a voler ripetere quel gesto tante volte fatto, in realtà la chiave era nella tasca dei pantaloni. Il portoncino verde si aprì e una folata di aria fresca mi investì. Il caldo soffocante era ora fuori. Dentro si stava bene, si stava meglio, era silenzioso e buio. Tutti gli scuri verdi erano chiusi.

Aveva sempre avuto la convinzione che quella casa fosse viva, fosse abitata da fantasmi, fantasmi di persone che erano state e che ora non erano più. Respirò profondamente come prima di una lunga apnea, di un lungo tuffo nel passato e nei ricordi ed entrai. Era ora nella sala da pranzo con l’arredo comprato da un rigattiere dalla bisnonna appena rientrata a Salgareda dopo la prima Guerra Mondiale, così le aveva sempre raccontato il papà. Ecco una prima finestra da aprire, bisognava fare entrare nuova aria nella casa e soprattutto luce.
Improvvisamente sentì delle voci in cucina, si voltò e vide un’ombra, la mamma? Il portoncino che dava sul giardino di dietro era aperto, fuori poteva vedere chiaramente il piccolo tavolo in legno apparecchiato. Sentiva anche delle voci, ma non riusciva a distinguere le parole, le pareva anche di sentire guaire, era forse la Daina, la cagnetta nera che aveva da piccola. Chissà se anche lei era rimasta fantasma in quella casa. M. seguì quell’impressione ed entrò in cucina, ma non c’era nulla. Aprì lei la porta sul retro. Si guardò attorno. La credenza bianca, la vecchia cucina, il lavello in granito, il rubinetto senza acqua calda, lo scolatoio per i piatti. Tutto era uguale, tutto era rimasto fermo nel tempo. Ma nulla di più, non c’era niente.

M. scuotendo la testa uscì e tornò indietro, voleva andare al piano di sopra. Attraversando nuovamente il corridoio, ebbe la sensazione di vedere con la coda dell’occhio una donna seduta sul divano davanti alla televisione mentre lavorava a maglia, poteva sentire il rumore dei ferri che si toccavano. Si voltò di scatto, ma anche questa era un’impressione.

M. salì le scale. Di sopra tutto era buio, bisognava fare luce. Andò prima in bagno per aprire le finestre, ma non era sola, affacciato al balcone c’era un uomo con la barba e un bicchiere pieno d’acqua stretto tra le mani, sapeva bene quali fossero le sue intenzioni, ormai conosceva bene suo papà . Quante volte lo aveva sperimentato sulla propria pelle, quante volte si era trovata inzuppata perché non era stata abbastanza veloce da evitare il “gavettone”. Si sporse dall’altra finestra e vide giù in giardino una bambina con i capelli a caschetto un po’ cicciottella che appoggiata al manubrio della bicicletta chiedeva insistentemente tra quanto tempo avrebbe potuto fare il bagno in piscina. Improvvisamente tirò dentro la testa e non vide più nulla, non sentì più nulla. Un’impressione? Forse.

Uscì dal bagno ancora turbata da ciò che aveva visto o che forse aveva solo immaginato. Ora c’era un po’ più di luce, si vedeva bene. Il fresco della casa cominciava quasi a darle fastidio, aveva la pelle d’oca. M. si strinse le spalle si massaggiò velocemente le braccia come per scaldarsi ed andò nella camera da letto matrimoniale. Altre finestre da aprire; c’era anche una porta che dava sul terrazzino. Forse spalancando tutto sarebbe entrato un po’ di quel caldo che prima la soffocava.

La stanza era sempre uguale. Il grande letto sulla sinistra con ai piedi le due poltroncine, un armadio con lo specchio, un tavolino da toilette e un cassettone anche questo con lo specchio. Alle pareti c’erano vecchie foto di persone che ora non sono più ma di cui M. aveva sempre sentito parlare. Foto degli inizi del secolo scorso. Foto di uomini, ragazzi, soldati morti durante la I Guerra Mondiale, come lo zio Attilio e il fratello della nonna Margherita, Giovanni, il sommergibilista, così si chiamava? Quante volte lo aveva chiesto a suo papà.
Sul cassettone c’era ancora il carillon che suo padre aveva regalato a sua madre di ritorno da un viaggio a Sarayevo. Era una scatola porta gioie quadrata di legno verde intarsiata con dentro del velluto rosso e un piccolo specchietto rotondo. Sotto c’era la chiavetta per caricarlo. M. la girò, la musica iniziò a suonare, era la colonna sonora di Love Story. Improvvisamente sentì come se qualcuno si stesse muovendo. Si voltò di scatto, ma forse era un’altra impressione. Sua madre, la mamma era lì, seduta sul letto. Le finestre e la porta del terrazzo erano aperte, si vedevano i fiori rossi dalla curiosa forma di trombetta che sembravano voler entrare e invadere la stanza. La mamma era sempre sul letto, era come se la ricordava, giovane, bella, ma le mamme sono sempre belle. Si stava mettendo lo smalto sui piedi. Accanto a lei una bambina che guardava incuriosita. Anche lei voleva lo smalto rosso: “quando sarai grande” rispondeva pazientemente la mamma, mentre con mano ferma e precisa intingeva il pennellino nella boccettina. I piedi della mamma, da quanto tempo non li vedeva. Se li ricordava bene, così come si ricordava bene le mani, delicate, magre, eleganti, sottili, mani che sapevano voler bene. M. guardava quella scena, il cuore le batteva forte, il respiro si era come fermato e le lacrime chiedevano di uscire.
Non poteva essere vero, sua mamma non poteva essere lì. Sua mamma era morta più di vent’anni prima. Eppure, la vedeva, sentiva la sua voce, sentiva il suo profumo. Avrebbe voluto parlarle, abbracciarla, toccarla, stringerla ancora una volta, chiederle se era contenta di lei, chiederle se la guardava, chiederle se le voleva “ancora” bene. La mamma sul letto si girò verso la bambina, le sorrise con amore, la guardò e allungò una mano per darle una carezza. M. chiuse gli occhi e sentì lei sul suo viso quella carezza. Quando li riaprì l’impressione non c’era più. Le lacrime le rigavano il volto, erano calde e salate, avevano sempre lo stesso sapore eppure erano sempre diverse.
Si avvicinò al letto, allungò la mano e lo sfiorò. Il copriletto era perfetto, non c’era una piega, nessuno era mai stato seduto lì eppure M. aveva visto, aveva sentito.

Un’impressione, può essere stata soltanto un’impressione? O era un fantasma? Ma c’erano poi veramente i fantasmi in quella casa o erano soltanto nella sua mente? M. non lo sapeva, continuava a piangere. La stanza era vuota, c’era solo lei e la sua immagine riflessa nello specchio insieme a quella della piccola bambina. Improvvisamente il silenzio, il carillon aveva smesso di suonare. M. lo girò e lo caricò di nuovo. Andò poi verso l’armadio, si chinò sulle ginocchia ed aprì il cassetto che era lì sotto. Dentro era una scatola con della carta vecchia stropicciata che avvolgeva una bambola Pierrot. Non le era mai piaciuto, lo aveva sempre trovato orribile. Aveva la testa, le mani e i piedi di ceramica, mentre il corpo era imbottito e vestito con un abito di raso sintetico color glicine. Anche questo era un regalo di suo padre a sua madre. M. lo guardava, era lì nel cassetto dentro ad una scatola, protetto dalla carta, lo sguardo triste. Lui non era un fantasma. M. lo fissò per un ultima volta richiuse il cassetto e si alzò. Andò fuori sul terrazzo. La luce era accecante e il caldo soffocante ora era quasi un sollievo al troppo fresco della casa. Sulla sinistra c’era una cisterna di cemento, si sporse per vedere se c’erano ancora delle noci. Quando era bambina, c’era un grande noce che era alto quasi come la casa e che ogni anno faceva tanti frutti, alcuni cadevano anche nella piccola cisterna. Dentro non c’era nulla solo qualche foglia, ma d’altra parte anche la grande pianta non c’era più, si era ammalata e l’avevano dovuta tagliare. Anche lei ora era un fantasma in quel giardino.

M. respirò profondamente, dalla strada, la provinciale ovest, giungevano rumori fastidiosi di macchine e camion che passavano ad alta velocità. Infastidita rientrò. Ora rimanevano solo altre due stanze da aprire. Guardò ancora il letto, chiuse la scatola/carillon ed andò nella stanza blu.

Aprì le persiane. La luce entrò. Ecco di nuovo la bambina di prima, era seduta sul letto e la fissava incuriosita poi domandò: “Chi sei?”.
“Sono M.”
“Cosa fai qui? Stai cercando qualcosa?” chiese sorridendo.
“No, non sto cercando nulla o forse si, non lo so. Comunque sono venuta qui per far prendere un po’ d’aria a questa casa. E tu, cosa fai qua?”
“Io ci vivo qui. Ora però vado a fare il bagno in piscina, la mamma mi ha detto che adesso posso farlo”, rispose la bambina e si alzò dal letto, prese l’asciugamano bianco con il cavallo della Vidal e corse via. “Aspetta…..!”, disse M. e fece per seguirla fuori dalla stanza, ma non c’era nessuno. Niente. Il vuoto. Possibile? Eppure aveva avuto la netta impressione di aver parlato con quella bambina che le ricordava qualcuno. Ma dov’era finita ora.

Ora bisognava aprire l’ultima stanza. Era una stanza tutta in legno, ricordava un po’ una casa di montagna. Aprì la finestra e si sporse per vedere giù. Le anatre erano sempre nella fontanella, le galline razzolavano nel prato alla ricerca dei vermi e degli insetti, il caldo era sempre soffocante e la luce fortissima. M. sentì dei passi in corridoio, erano passi a lei famigliari, passi che però non sentiva da anni. Si allontanò dalla finestra e andò verso la porta. Eccola ancora, la mamma. Aveva in mano un prendisole di cotone stampato, lo stava mettendo via nell’armadio. M. provò a chiamarla, “mamma”. Ma nessuno rispose. Riprovò ancora, “mamma”, ma ancora nulla. Le si avvicinò per toccarla, per fermarla, per afferrarla, per non farsela più scappare. Gli occhi di M. si riempirono di lacrime, li chiuse per un secondo come per mandarle via e quando li riaprì non c’era più nessuno. Com’era possibile, un’altra impressione? M. non capiva. Si asciugò le guance bagnate e fece un profondo respiro. Nel guardarsi attorno si accorse che un’anta dell’armadio era aperta. Avrebbe giurato che fosse chiusa, eppure…….ora era aperta. M. si avvicinò per chiuderla quando vide dentro l’abito prendisole di cotone stampato, che nella sua impressione aveva riposto sua mamma, che dondolava come se qualcuno lo avesse appena appeso. Con le mani che le tremavano, M. chiuse l’armadio si guardò attorno e se ne andò.

Scese le scale, diede un ultima occhiata al salotto, non c’era più la donna, la mamma, che lavorava a maglia. Non c’era più, eppure era stata o forse era stata soltanto un impressione. Ora però non c’era più, non era più. M. si avvicinò alla porta per uscire. Si voltò un ultima volta e vide ancora la bambina che la fissava con i grandi occhi azzurri, la salutava da lontano e le sorrideva.
M. uscì e tirò la porta dietro di sé. Ma aveva veramente chiuso la porta? La porta del passato? Aveva chiuso tutti i fantasmi dentro o forse erano loro che non volevano uscire da lì? Chissà se quella casa era veramente abitata da fantasmi. Forse M. aveva semplicemente avuto l’impressione di sentire e vedere, ma le lacrime quelle non erano un impressione. Forse lei stessa era un fantasma.

M. si incamminò nuovamente lungo il vialetto per tornare verso la Casa Nuova. Tutto era come prima, le galline razzolavano, le anatre sguazzavano nel laghetto, il caldo era sempre soffocante e la luce fortissima. Il giardino era tranquillo e silenzioso, a parte qualche tortora.
M. stava camminando quando sentì rumore di acqua. Attraversò il prato e si avvicinò alla piscina. Vide la mamma, seduta sulla panchina con la testa china a lavorare all’uncinetto. In acqua c’era la bambina ormai a lei tanto famigliare che nuotava ridendo, nel vedere M. le fece cenno di avvicinarsi e le disse: “ciao, ho parlato prima con la mia mamma e mi ha detto di dirti se ti avessi rivisto che ti vuole bene, che te ne ha sempre voluto e che mai smetterà di volertene. Anche io te ne voglio e a proposito anche io mi chiamo M., Margherita”.

Ma forse anche questa era un’impressione.