lunedì 30 aprile 2007

Impressioni

Finalmente M. era arrivata. Era particolarmente provata dal viaggio, tutto quel traffico l’aveva stancata ed ora voleva solo rilassarsi e stare un po’ per conto suo. Faceva caldo, il caldo che si ricordava da bambina, umido, soffocante, ma allo stesso tempo dolce e rassicurante. Era finalmente a casa, a Salgareda e non vedeva l’ora di andare a fare una passeggiata per il giardino e respirare un po’ di aria pulita. Aveva i polmoni inquinati e forse non solo quelli.

Tutto era rimasto uguale, solo lei era cambiata da quando era bambina e correva per quegli stessi prati. Lì aveva trascorso le estati, ed alcuni Natali ed Epifanie. Lì per la prima volta aveva assaggiato il chinotto, lì andava a raccogliere le nocciole a fine agosto e in primavera gli “sciopetti” per il risotto. Lì c’era ancora sua madre, suononno e tutti quelli che in un modo o nell’altro avevano attraversato la sua vita anche se solo perché raccontati da altri.

Aveva deciso di attraversare il giardino e di andare in “Casetta Vecchia” per farle prendere un po’ d’aria. La “casetta vecchia” quanta storia aveva visto, due guerre mondiali e tutta la nostra famiglia. Le piante erano sempre quelle, gli odori anche. Ogni tanto una gallina chiocciando attraversava il vialetto di corsa, le sembrava ancora di vedere la Diana, una cockerina nera, e il Signor Facen, il suo padrone con la pipa in bocca, ma in realtà era solo un’impressione.
Che cosa strana i ricordi. Si pensa sempre che siano unici, e che nessuno possa capirci quando ci facciamo prendere dalla malinconia, ma in realtà non sono mai unici proprio per il semplice fatto che noi non siamo gli unici a essere. Il Signor Facen aveva attraversato la vita di tante persone, quella di suo nonno, quella di suo padre e per una piccola parte anche la sua.

Arrivata alla fine del vialetto camminava ora sulla fastidiosa ghiaia, i sandali non l’aiutavano e i sassolini le si incastravano sotto le piante dei piedi provocando dolore. Sulla sinistra la grande gabbia per gli uccelli con la porta aperta, la fontanella con due anatre dentro a sguazzare e a destra i noccioli. Un’altra impressione: il vecchio tavolo in legno da ping-pong che il papà d’estate montava.
Eccola, la Casetta Vecchia. Era arrivata. Un tempo la chiave era nascosta in un piccolo vaso appeso alla parete, ora non era più lì. Istintivamente alzò gli occhi e la mano come a voler ripetere quel gesto tante volte fatto, in realtà la chiave era nella tasca dei pantaloni. Il portoncino verde si aprì e una folata di aria fresca mi investì. Il caldo soffocante era ora fuori. Dentro si stava bene, si stava meglio, era silenzioso e buio. Tutti gli scuri verdi erano chiusi.

Aveva sempre avuto la convinzione che quella casa fosse viva, fosse abitata da fantasmi, fantasmi di persone che erano state e che ora non erano più. Respirò profondamente come prima di una lunga apnea, di un lungo tuffo nel passato e nei ricordi ed entrai. Era ora nella sala da pranzo con l’arredo comprato da un rigattiere dalla bisnonna appena rientrata a Salgareda dopo la prima Guerra Mondiale, così le aveva sempre raccontato il papà. Ecco una prima finestra da aprire, bisognava fare entrare nuova aria nella casa e soprattutto luce.
Improvvisamente sentì delle voci in cucina, si voltò e vide un’ombra, la mamma? Il portoncino che dava sul giardino di dietro era aperto, fuori poteva vedere chiaramente il piccolo tavolo in legno apparecchiato. Sentiva anche delle voci, ma non riusciva a distinguere le parole, le pareva anche di sentire guaire, era forse la Daina, la cagnetta nera che aveva da piccola. Chissà se anche lei era rimasta fantasma in quella casa. M. seguì quell’impressione ed entrò in cucina, ma non c’era nulla. Aprì lei la porta sul retro. Si guardò attorno. La credenza bianca, la vecchia cucina, il lavello in granito, il rubinetto senza acqua calda, lo scolatoio per i piatti. Tutto era uguale, tutto era rimasto fermo nel tempo. Ma nulla di più, non c’era niente.

M. scuotendo la testa uscì e tornò indietro, voleva andare al piano di sopra. Attraversando nuovamente il corridoio, ebbe la sensazione di vedere con la coda dell’occhio una donna seduta sul divano davanti alla televisione mentre lavorava a maglia, poteva sentire il rumore dei ferri che si toccavano. Si voltò di scatto, ma anche questa era un’impressione.

M. salì le scale. Di sopra tutto era buio, bisognava fare luce. Andò prima in bagno per aprire le finestre, ma non era sola, affacciato al balcone c’era un uomo con la barba e un bicchiere pieno d’acqua stretto tra le mani, sapeva bene quali fossero le sue intenzioni, ormai conosceva bene suo papà . Quante volte lo aveva sperimentato sulla propria pelle, quante volte si era trovata inzuppata perché non era stata abbastanza veloce da evitare il “gavettone”. Si sporse dall’altra finestra e vide giù in giardino una bambina con i capelli a caschetto un po’ cicciottella che appoggiata al manubrio della bicicletta chiedeva insistentemente tra quanto tempo avrebbe potuto fare il bagno in piscina. Improvvisamente tirò dentro la testa e non vide più nulla, non sentì più nulla. Un’impressione? Forse.

Uscì dal bagno ancora turbata da ciò che aveva visto o che forse aveva solo immaginato. Ora c’era un po’ più di luce, si vedeva bene. Il fresco della casa cominciava quasi a darle fastidio, aveva la pelle d’oca. M. si strinse le spalle si massaggiò velocemente le braccia come per scaldarsi ed andò nella camera da letto matrimoniale. Altre finestre da aprire; c’era anche una porta che dava sul terrazzino. Forse spalancando tutto sarebbe entrato un po’ di quel caldo che prima la soffocava.

La stanza era sempre uguale. Il grande letto sulla sinistra con ai piedi le due poltroncine, un armadio con lo specchio, un tavolino da toilette e un cassettone anche questo con lo specchio. Alle pareti c’erano vecchie foto di persone che ora non sono più ma di cui M. aveva sempre sentito parlare. Foto degli inizi del secolo scorso. Foto di uomini, ragazzi, soldati morti durante la I Guerra Mondiale, come lo zio Attilio e il fratello della nonna Margherita, Giovanni, il sommergibilista, così si chiamava? Quante volte lo aveva chiesto a suo papà.
Sul cassettone c’era ancora il carillon che suo padre aveva regalato a sua madre di ritorno da un viaggio a Sarayevo. Era una scatola porta gioie quadrata di legno verde intarsiata con dentro del velluto rosso e un piccolo specchietto rotondo. Sotto c’era la chiavetta per caricarlo. M. la girò, la musica iniziò a suonare, era la colonna sonora di Love Story. Improvvisamente sentì come se qualcuno si stesse muovendo. Si voltò di scatto, ma forse era un’altra impressione. Sua madre, la mamma era lì, seduta sul letto. Le finestre e la porta del terrazzo erano aperte, si vedevano i fiori rossi dalla curiosa forma di trombetta che sembravano voler entrare e invadere la stanza. La mamma era sempre sul letto, era come se la ricordava, giovane, bella, ma le mamme sono sempre belle. Si stava mettendo lo smalto sui piedi. Accanto a lei una bambina che guardava incuriosita. Anche lei voleva lo smalto rosso: “quando sarai grande” rispondeva pazientemente la mamma, mentre con mano ferma e precisa intingeva il pennellino nella boccettina. I piedi della mamma, da quanto tempo non li vedeva. Se li ricordava bene, così come si ricordava bene le mani, delicate, magre, eleganti, sottili, mani che sapevano voler bene. M. guardava quella scena, il cuore le batteva forte, il respiro si era come fermato e le lacrime chiedevano di uscire.
Non poteva essere vero, sua mamma non poteva essere lì. Sua mamma era morta più di vent’anni prima. Eppure, la vedeva, sentiva la sua voce, sentiva il suo profumo. Avrebbe voluto parlarle, abbracciarla, toccarla, stringerla ancora una volta, chiederle se era contenta di lei, chiederle se la guardava, chiederle se le voleva “ancora” bene. La mamma sul letto si girò verso la bambina, le sorrise con amore, la guardò e allungò una mano per darle una carezza. M. chiuse gli occhi e sentì lei sul suo viso quella carezza. Quando li riaprì l’impressione non c’era più. Le lacrime le rigavano il volto, erano calde e salate, avevano sempre lo stesso sapore eppure erano sempre diverse.
Si avvicinò al letto, allungò la mano e lo sfiorò. Il copriletto era perfetto, non c’era una piega, nessuno era mai stato seduto lì eppure M. aveva visto, aveva sentito.

Un’impressione, può essere stata soltanto un’impressione? O era un fantasma? Ma c’erano poi veramente i fantasmi in quella casa o erano soltanto nella sua mente? M. non lo sapeva, continuava a piangere. La stanza era vuota, c’era solo lei e la sua immagine riflessa nello specchio insieme a quella della piccola bambina. Improvvisamente il silenzio, il carillon aveva smesso di suonare. M. lo girò e lo caricò di nuovo. Andò poi verso l’armadio, si chinò sulle ginocchia ed aprì il cassetto che era lì sotto. Dentro era una scatola con della carta vecchia stropicciata che avvolgeva una bambola Pierrot. Non le era mai piaciuto, lo aveva sempre trovato orribile. Aveva la testa, le mani e i piedi di ceramica, mentre il corpo era imbottito e vestito con un abito di raso sintetico color glicine. Anche questo era un regalo di suo padre a sua madre. M. lo guardava, era lì nel cassetto dentro ad una scatola, protetto dalla carta, lo sguardo triste. Lui non era un fantasma. M. lo fissò per un ultima volta richiuse il cassetto e si alzò. Andò fuori sul terrazzo. La luce era accecante e il caldo soffocante ora era quasi un sollievo al troppo fresco della casa. Sulla sinistra c’era una cisterna di cemento, si sporse per vedere se c’erano ancora delle noci. Quando era bambina, c’era un grande noce che era alto quasi come la casa e che ogni anno faceva tanti frutti, alcuni cadevano anche nella piccola cisterna. Dentro non c’era nulla solo qualche foglia, ma d’altra parte anche la grande pianta non c’era più, si era ammalata e l’avevano dovuta tagliare. Anche lei ora era un fantasma in quel giardino.

M. respirò profondamente, dalla strada, la provinciale ovest, giungevano rumori fastidiosi di macchine e camion che passavano ad alta velocità. Infastidita rientrò. Ora rimanevano solo altre due stanze da aprire. Guardò ancora il letto, chiuse la scatola/carillon ed andò nella stanza blu.

Aprì le persiane. La luce entrò. Ecco di nuovo la bambina di prima, era seduta sul letto e la fissava incuriosita poi domandò: “Chi sei?”.
“Sono M.”
“Cosa fai qui? Stai cercando qualcosa?” chiese sorridendo.
“No, non sto cercando nulla o forse si, non lo so. Comunque sono venuta qui per far prendere un po’ d’aria a questa casa. E tu, cosa fai qua?”
“Io ci vivo qui. Ora però vado a fare il bagno in piscina, la mamma mi ha detto che adesso posso farlo”, rispose la bambina e si alzò dal letto, prese l’asciugamano bianco con il cavallo della Vidal e corse via. “Aspetta…..!”, disse M. e fece per seguirla fuori dalla stanza, ma non c’era nessuno. Niente. Il vuoto. Possibile? Eppure aveva avuto la netta impressione di aver parlato con quella bambina che le ricordava qualcuno. Ma dov’era finita ora.

Ora bisognava aprire l’ultima stanza. Era una stanza tutta in legno, ricordava un po’ una casa di montagna. Aprì la finestra e si sporse per vedere giù. Le anatre erano sempre nella fontanella, le galline razzolavano nel prato alla ricerca dei vermi e degli insetti, il caldo era sempre soffocante e la luce fortissima. M. sentì dei passi in corridoio, erano passi a lei famigliari, passi che però non sentiva da anni. Si allontanò dalla finestra e andò verso la porta. Eccola ancora, la mamma. Aveva in mano un prendisole di cotone stampato, lo stava mettendo via nell’armadio. M. provò a chiamarla, “mamma”. Ma nessuno rispose. Riprovò ancora, “mamma”, ma ancora nulla. Le si avvicinò per toccarla, per fermarla, per afferrarla, per non farsela più scappare. Gli occhi di M. si riempirono di lacrime, li chiuse per un secondo come per mandarle via e quando li riaprì non c’era più nessuno. Com’era possibile, un’altra impressione? M. non capiva. Si asciugò le guance bagnate e fece un profondo respiro. Nel guardarsi attorno si accorse che un’anta dell’armadio era aperta. Avrebbe giurato che fosse chiusa, eppure…….ora era aperta. M. si avvicinò per chiuderla quando vide dentro l’abito prendisole di cotone stampato, che nella sua impressione aveva riposto sua mamma, che dondolava come se qualcuno lo avesse appena appeso. Con le mani che le tremavano, M. chiuse l’armadio si guardò attorno e se ne andò.

Scese le scale, diede un ultima occhiata al salotto, non c’era più la donna, la mamma, che lavorava a maglia. Non c’era più, eppure era stata o forse era stata soltanto un impressione. Ora però non c’era più, non era più. M. si avvicinò alla porta per uscire. Si voltò un ultima volta e vide ancora la bambina che la fissava con i grandi occhi azzurri, la salutava da lontano e le sorrideva.
M. uscì e tirò la porta dietro di sé. Ma aveva veramente chiuso la porta? La porta del passato? Aveva chiuso tutti i fantasmi dentro o forse erano loro che non volevano uscire da lì? Chissà se quella casa era veramente abitata da fantasmi. Forse M. aveva semplicemente avuto l’impressione di sentire e vedere, ma le lacrime quelle non erano un impressione. Forse lei stessa era un fantasma.

M. si incamminò nuovamente lungo il vialetto per tornare verso la Casa Nuova. Tutto era come prima, le galline razzolavano, le anatre sguazzavano nel laghetto, il caldo era sempre soffocante e la luce fortissima. Il giardino era tranquillo e silenzioso, a parte qualche tortora.
M. stava camminando quando sentì rumore di acqua. Attraversò il prato e si avvicinò alla piscina. Vide la mamma, seduta sulla panchina con la testa china a lavorare all’uncinetto. In acqua c’era la bambina ormai a lei tanto famigliare che nuotava ridendo, nel vedere M. le fece cenno di avvicinarsi e le disse: “ciao, ho parlato prima con la mia mamma e mi ha detto di dirti se ti avessi rivisto che ti vuole bene, che te ne ha sempre voluto e che mai smetterà di volertene. Anche io te ne voglio e a proposito anche io mi chiamo M., Margherita”.

Ma forse anche questa era un’impressione.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Buona giornata da Mario