lunedì 30 aprile 2007

Impressioni

Finalmente M. era arrivata. Era particolarmente provata dal viaggio, tutto quel traffico l’aveva stancata ed ora voleva solo rilassarsi e stare un po’ per conto suo. Faceva caldo, il caldo che si ricordava da bambina, umido, soffocante, ma allo stesso tempo dolce e rassicurante. Era finalmente a casa, a Salgareda e non vedeva l’ora di andare a fare una passeggiata per il giardino e respirare un po’ di aria pulita. Aveva i polmoni inquinati e forse non solo quelli.

Tutto era rimasto uguale, solo lei era cambiata da quando era bambina e correva per quegli stessi prati. Lì aveva trascorso le estati, ed alcuni Natali ed Epifanie. Lì per la prima volta aveva assaggiato il chinotto, lì andava a raccogliere le nocciole a fine agosto e in primavera gli “sciopetti” per il risotto. Lì c’era ancora sua madre, suononno e tutti quelli che in un modo o nell’altro avevano attraversato la sua vita anche se solo perché raccontati da altri.

Aveva deciso di attraversare il giardino e di andare in “Casetta Vecchia” per farle prendere un po’ d’aria. La “casetta vecchia” quanta storia aveva visto, due guerre mondiali e tutta la nostra famiglia. Le piante erano sempre quelle, gli odori anche. Ogni tanto una gallina chiocciando attraversava il vialetto di corsa, le sembrava ancora di vedere la Diana, una cockerina nera, e il Signor Facen, il suo padrone con la pipa in bocca, ma in realtà era solo un’impressione.
Che cosa strana i ricordi. Si pensa sempre che siano unici, e che nessuno possa capirci quando ci facciamo prendere dalla malinconia, ma in realtà non sono mai unici proprio per il semplice fatto che noi non siamo gli unici a essere. Il Signor Facen aveva attraversato la vita di tante persone, quella di suo nonno, quella di suo padre e per una piccola parte anche la sua.

Arrivata alla fine del vialetto camminava ora sulla fastidiosa ghiaia, i sandali non l’aiutavano e i sassolini le si incastravano sotto le piante dei piedi provocando dolore. Sulla sinistra la grande gabbia per gli uccelli con la porta aperta, la fontanella con due anatre dentro a sguazzare e a destra i noccioli. Un’altra impressione: il vecchio tavolo in legno da ping-pong che il papà d’estate montava.
Eccola, la Casetta Vecchia. Era arrivata. Un tempo la chiave era nascosta in un piccolo vaso appeso alla parete, ora non era più lì. Istintivamente alzò gli occhi e la mano come a voler ripetere quel gesto tante volte fatto, in realtà la chiave era nella tasca dei pantaloni. Il portoncino verde si aprì e una folata di aria fresca mi investì. Il caldo soffocante era ora fuori. Dentro si stava bene, si stava meglio, era silenzioso e buio. Tutti gli scuri verdi erano chiusi.

Aveva sempre avuto la convinzione che quella casa fosse viva, fosse abitata da fantasmi, fantasmi di persone che erano state e che ora non erano più. Respirò profondamente come prima di una lunga apnea, di un lungo tuffo nel passato e nei ricordi ed entrai. Era ora nella sala da pranzo con l’arredo comprato da un rigattiere dalla bisnonna appena rientrata a Salgareda dopo la prima Guerra Mondiale, così le aveva sempre raccontato il papà. Ecco una prima finestra da aprire, bisognava fare entrare nuova aria nella casa e soprattutto luce.
Improvvisamente sentì delle voci in cucina, si voltò e vide un’ombra, la mamma? Il portoncino che dava sul giardino di dietro era aperto, fuori poteva vedere chiaramente il piccolo tavolo in legno apparecchiato. Sentiva anche delle voci, ma non riusciva a distinguere le parole, le pareva anche di sentire guaire, era forse la Daina, la cagnetta nera che aveva da piccola. Chissà se anche lei era rimasta fantasma in quella casa. M. seguì quell’impressione ed entrò in cucina, ma non c’era nulla. Aprì lei la porta sul retro. Si guardò attorno. La credenza bianca, la vecchia cucina, il lavello in granito, il rubinetto senza acqua calda, lo scolatoio per i piatti. Tutto era uguale, tutto era rimasto fermo nel tempo. Ma nulla di più, non c’era niente.

M. scuotendo la testa uscì e tornò indietro, voleva andare al piano di sopra. Attraversando nuovamente il corridoio, ebbe la sensazione di vedere con la coda dell’occhio una donna seduta sul divano davanti alla televisione mentre lavorava a maglia, poteva sentire il rumore dei ferri che si toccavano. Si voltò di scatto, ma anche questa era un’impressione.

M. salì le scale. Di sopra tutto era buio, bisognava fare luce. Andò prima in bagno per aprire le finestre, ma non era sola, affacciato al balcone c’era un uomo con la barba e un bicchiere pieno d’acqua stretto tra le mani, sapeva bene quali fossero le sue intenzioni, ormai conosceva bene suo papà . Quante volte lo aveva sperimentato sulla propria pelle, quante volte si era trovata inzuppata perché non era stata abbastanza veloce da evitare il “gavettone”. Si sporse dall’altra finestra e vide giù in giardino una bambina con i capelli a caschetto un po’ cicciottella che appoggiata al manubrio della bicicletta chiedeva insistentemente tra quanto tempo avrebbe potuto fare il bagno in piscina. Improvvisamente tirò dentro la testa e non vide più nulla, non sentì più nulla. Un’impressione? Forse.

Uscì dal bagno ancora turbata da ciò che aveva visto o che forse aveva solo immaginato. Ora c’era un po’ più di luce, si vedeva bene. Il fresco della casa cominciava quasi a darle fastidio, aveva la pelle d’oca. M. si strinse le spalle si massaggiò velocemente le braccia come per scaldarsi ed andò nella camera da letto matrimoniale. Altre finestre da aprire; c’era anche una porta che dava sul terrazzino. Forse spalancando tutto sarebbe entrato un po’ di quel caldo che prima la soffocava.

La stanza era sempre uguale. Il grande letto sulla sinistra con ai piedi le due poltroncine, un armadio con lo specchio, un tavolino da toilette e un cassettone anche questo con lo specchio. Alle pareti c’erano vecchie foto di persone che ora non sono più ma di cui M. aveva sempre sentito parlare. Foto degli inizi del secolo scorso. Foto di uomini, ragazzi, soldati morti durante la I Guerra Mondiale, come lo zio Attilio e il fratello della nonna Margherita, Giovanni, il sommergibilista, così si chiamava? Quante volte lo aveva chiesto a suo papà.
Sul cassettone c’era ancora il carillon che suo padre aveva regalato a sua madre di ritorno da un viaggio a Sarayevo. Era una scatola porta gioie quadrata di legno verde intarsiata con dentro del velluto rosso e un piccolo specchietto rotondo. Sotto c’era la chiavetta per caricarlo. M. la girò, la musica iniziò a suonare, era la colonna sonora di Love Story. Improvvisamente sentì come se qualcuno si stesse muovendo. Si voltò di scatto, ma forse era un’altra impressione. Sua madre, la mamma era lì, seduta sul letto. Le finestre e la porta del terrazzo erano aperte, si vedevano i fiori rossi dalla curiosa forma di trombetta che sembravano voler entrare e invadere la stanza. La mamma era sempre sul letto, era come se la ricordava, giovane, bella, ma le mamme sono sempre belle. Si stava mettendo lo smalto sui piedi. Accanto a lei una bambina che guardava incuriosita. Anche lei voleva lo smalto rosso: “quando sarai grande” rispondeva pazientemente la mamma, mentre con mano ferma e precisa intingeva il pennellino nella boccettina. I piedi della mamma, da quanto tempo non li vedeva. Se li ricordava bene, così come si ricordava bene le mani, delicate, magre, eleganti, sottili, mani che sapevano voler bene. M. guardava quella scena, il cuore le batteva forte, il respiro si era come fermato e le lacrime chiedevano di uscire.
Non poteva essere vero, sua mamma non poteva essere lì. Sua mamma era morta più di vent’anni prima. Eppure, la vedeva, sentiva la sua voce, sentiva il suo profumo. Avrebbe voluto parlarle, abbracciarla, toccarla, stringerla ancora una volta, chiederle se era contenta di lei, chiederle se la guardava, chiederle se le voleva “ancora” bene. La mamma sul letto si girò verso la bambina, le sorrise con amore, la guardò e allungò una mano per darle una carezza. M. chiuse gli occhi e sentì lei sul suo viso quella carezza. Quando li riaprì l’impressione non c’era più. Le lacrime le rigavano il volto, erano calde e salate, avevano sempre lo stesso sapore eppure erano sempre diverse.
Si avvicinò al letto, allungò la mano e lo sfiorò. Il copriletto era perfetto, non c’era una piega, nessuno era mai stato seduto lì eppure M. aveva visto, aveva sentito.

Un’impressione, può essere stata soltanto un’impressione? O era un fantasma? Ma c’erano poi veramente i fantasmi in quella casa o erano soltanto nella sua mente? M. non lo sapeva, continuava a piangere. La stanza era vuota, c’era solo lei e la sua immagine riflessa nello specchio insieme a quella della piccola bambina. Improvvisamente il silenzio, il carillon aveva smesso di suonare. M. lo girò e lo caricò di nuovo. Andò poi verso l’armadio, si chinò sulle ginocchia ed aprì il cassetto che era lì sotto. Dentro era una scatola con della carta vecchia stropicciata che avvolgeva una bambola Pierrot. Non le era mai piaciuto, lo aveva sempre trovato orribile. Aveva la testa, le mani e i piedi di ceramica, mentre il corpo era imbottito e vestito con un abito di raso sintetico color glicine. Anche questo era un regalo di suo padre a sua madre. M. lo guardava, era lì nel cassetto dentro ad una scatola, protetto dalla carta, lo sguardo triste. Lui non era un fantasma. M. lo fissò per un ultima volta richiuse il cassetto e si alzò. Andò fuori sul terrazzo. La luce era accecante e il caldo soffocante ora era quasi un sollievo al troppo fresco della casa. Sulla sinistra c’era una cisterna di cemento, si sporse per vedere se c’erano ancora delle noci. Quando era bambina, c’era un grande noce che era alto quasi come la casa e che ogni anno faceva tanti frutti, alcuni cadevano anche nella piccola cisterna. Dentro non c’era nulla solo qualche foglia, ma d’altra parte anche la grande pianta non c’era più, si era ammalata e l’avevano dovuta tagliare. Anche lei ora era un fantasma in quel giardino.

M. respirò profondamente, dalla strada, la provinciale ovest, giungevano rumori fastidiosi di macchine e camion che passavano ad alta velocità. Infastidita rientrò. Ora rimanevano solo altre due stanze da aprire. Guardò ancora il letto, chiuse la scatola/carillon ed andò nella stanza blu.

Aprì le persiane. La luce entrò. Ecco di nuovo la bambina di prima, era seduta sul letto e la fissava incuriosita poi domandò: “Chi sei?”.
“Sono M.”
“Cosa fai qui? Stai cercando qualcosa?” chiese sorridendo.
“No, non sto cercando nulla o forse si, non lo so. Comunque sono venuta qui per far prendere un po’ d’aria a questa casa. E tu, cosa fai qua?”
“Io ci vivo qui. Ora però vado a fare il bagno in piscina, la mamma mi ha detto che adesso posso farlo”, rispose la bambina e si alzò dal letto, prese l’asciugamano bianco con il cavallo della Vidal e corse via. “Aspetta…..!”, disse M. e fece per seguirla fuori dalla stanza, ma non c’era nessuno. Niente. Il vuoto. Possibile? Eppure aveva avuto la netta impressione di aver parlato con quella bambina che le ricordava qualcuno. Ma dov’era finita ora.

Ora bisognava aprire l’ultima stanza. Era una stanza tutta in legno, ricordava un po’ una casa di montagna. Aprì la finestra e si sporse per vedere giù. Le anatre erano sempre nella fontanella, le galline razzolavano nel prato alla ricerca dei vermi e degli insetti, il caldo era sempre soffocante e la luce fortissima. M. sentì dei passi in corridoio, erano passi a lei famigliari, passi che però non sentiva da anni. Si allontanò dalla finestra e andò verso la porta. Eccola ancora, la mamma. Aveva in mano un prendisole di cotone stampato, lo stava mettendo via nell’armadio. M. provò a chiamarla, “mamma”. Ma nessuno rispose. Riprovò ancora, “mamma”, ma ancora nulla. Le si avvicinò per toccarla, per fermarla, per afferrarla, per non farsela più scappare. Gli occhi di M. si riempirono di lacrime, li chiuse per un secondo come per mandarle via e quando li riaprì non c’era più nessuno. Com’era possibile, un’altra impressione? M. non capiva. Si asciugò le guance bagnate e fece un profondo respiro. Nel guardarsi attorno si accorse che un’anta dell’armadio era aperta. Avrebbe giurato che fosse chiusa, eppure…….ora era aperta. M. si avvicinò per chiuderla quando vide dentro l’abito prendisole di cotone stampato, che nella sua impressione aveva riposto sua mamma, che dondolava come se qualcuno lo avesse appena appeso. Con le mani che le tremavano, M. chiuse l’armadio si guardò attorno e se ne andò.

Scese le scale, diede un ultima occhiata al salotto, non c’era più la donna, la mamma, che lavorava a maglia. Non c’era più, eppure era stata o forse era stata soltanto un impressione. Ora però non c’era più, non era più. M. si avvicinò alla porta per uscire. Si voltò un ultima volta e vide ancora la bambina che la fissava con i grandi occhi azzurri, la salutava da lontano e le sorrideva.
M. uscì e tirò la porta dietro di sé. Ma aveva veramente chiuso la porta? La porta del passato? Aveva chiuso tutti i fantasmi dentro o forse erano loro che non volevano uscire da lì? Chissà se quella casa era veramente abitata da fantasmi. Forse M. aveva semplicemente avuto l’impressione di sentire e vedere, ma le lacrime quelle non erano un impressione. Forse lei stessa era un fantasma.

M. si incamminò nuovamente lungo il vialetto per tornare verso la Casa Nuova. Tutto era come prima, le galline razzolavano, le anatre sguazzavano nel laghetto, il caldo era sempre soffocante e la luce fortissima. Il giardino era tranquillo e silenzioso, a parte qualche tortora.
M. stava camminando quando sentì rumore di acqua. Attraversò il prato e si avvicinò alla piscina. Vide la mamma, seduta sulla panchina con la testa china a lavorare all’uncinetto. In acqua c’era la bambina ormai a lei tanto famigliare che nuotava ridendo, nel vedere M. le fece cenno di avvicinarsi e le disse: “ciao, ho parlato prima con la mia mamma e mi ha detto di dirti se ti avessi rivisto che ti vuole bene, che te ne ha sempre voluto e che mai smetterà di volertene. Anche io te ne voglio e a proposito anche io mi chiamo M., Margherita”.

Ma forse anche questa era un’impressione.

lunedì 16 aprile 2007

LA STAZIONE


Il signor Ernesto Piovani era in anticipo per il treno che doveva portarlo a destinazione. La stazione brulicava di gente come fosse un formicaio. Chi guardava il pannello con gli orari delle partenze, chi quello degli arrivi. Chi sbuffava per il ritardo del treno, chi imprecava per il treno appena perso.
La voce, una fredda voce femminile con grande noia e senza nessuna intonazione o accento annunciava gli arrivi, i ritardi, le partenze e i cambi di binario.

Faceva freddo. Era inverno. Era mattino e dalla grande volta di vetro e ferro filtrava una fredda e soffusa luce. Il signor Piovani decise di andare a sedersi ad un piccolo tavolino del bar della stazione per ingannare l’attesa. Ordinò un caffè. Si tolse il cappello in feltro grigio e lo appoggiò con cura sulla sedia vicina. Poi prese il giornale e cominciò a leggere. Era un uomo di circa 70 anni. Aveva famiglia, una moglie che amava infinitamente, due figli, un maschio ed una femmina, 3 nipoti, ed un cane. Insomma non era nulla di diverso dal normale padre di famiglia.
Era dovuto partire all’improvviso. Una mattina mentre usciva di casa per andare a fare la solita passeggiata, senza rendersene conto si ritrovò in fila allo sportello della biglietteria della stazione. Aveva seguito il terribile e irrefrenabile impulso di comprare un biglietto per Castelmonte, il suo paese di origine.
“Andata per l’11 febbraio, ritorno per il 13. Tutte e due con prenotazione, seconda classe, grazie” Chiese al bigliettaio
“Per l’andata non ci sono problemi, per il ritorno……non posso farle la prenotazione. Per il 13 febbraio è previsto uno sciopero nazionale. Se vuole possiamo cambiare data.” Rispose una voce gentile al di là del vetro di protezione
“No, devo assolutamente rientrare per quella data. Sa….. la famiglia. Vabbè, non importa la prenotazione, mi faccia però lo stesso il biglietto di ritorno. Cercherò di arrangiarmi in un modo o nell’altro” disse con tono rassegnato il Signor Piovani.
Pagò, ritirò i biglietti, li controllò e se ne andò.
Chissà perché gli era venuta quella voglia irrefrenabile di tornare al suo paesetto. In fondo non c’era più nessuno che lo aspettava. I suoi genitori erano morti anni prima. Sua sorella viveva a Roma, felicemente sposata e godeva di ottima salute. Lì era rimasta soltanto la vecchia zia Rosa, sorella di sua mamma. Ormai aveva più di 90 anni, non si era mai sposata. Era stata fidanzata da giovane, ma il ragazzo che amava non era mai tornato dalla Russia durante la seconda guerra mondiale. Era stato dato per disperso. Nessuno ne aveva mai trovato il corpo o una croce che potesse confermare il suo destino e così la vecchia zia Rosa aveva continuato a sperare e ad aspettare e nell’attesa i capelli le erano diventati bianchi e il viso si era coperto di rughe.

La sera del 10 febbraio, Ernesto Piovani rientrò a casa come suo solito dopo la passeggiata serale. Appese il cappotto grigio, appoggiò il cappello di feltro sul mobile in ingresso. Salutò la moglie e andò in camera a sistemare le sue cose per il viaggio. Preparò una piccola borsa. Non sapeva bene cosa gli sarebbe servito, certo sarebbe stato via poco. Due camice ed un ricambio di pantaloni più la biancheria potevano bastare. Gli venne in mente che forse doveva prenotare l’albergo, ma poi pensò che per due notti non ci sarebbe stato problema a trovare una stanza all’hotel Postiglione.

A cena come ormai da anni, erano solo lui e la moglie Anita. Un piatto di minestrone, un involtino e un’arancia. Questo era il tutto. Già si pregustava la deliziosa pasta fatta in casa tipica del suo paese, condita con il ragù di lepre e accompagnata da un sincero vino rosso.
Finita la cena. Nel silenzio delle parole, ma tra il rumore dei piatti e delle stoviglie che la moglie disponeva nella lavapiatti Ernesto Piovani andò in salotto a sedersi sulla sua solita poltrona con il solito giornale; era la solita serata. Poco dopo la moglie lo avrebbe raggiunto e avrebbero cominciato a chiacchierare della giornata appena trascorsa.

Il mattino successivo, svegliatosi di buon ora. Si preparò con cura, chiuse la piccolissima valigia, salutò la moglie, si mise il cappello, il cappotto prese i guanti ed uscì. Dalla strada si voltò solo un attimo a guardare la finestra aperta della camera da letto, come se volesse portare per quel viaggio questo ultimo ricordo.

Il Signor Ernesto Piovani ora si trovava in stazione, e per paura di perdere il treno era terribilmente in anticipo. La gente attorno a lui si muoveva frenetica. Erano tutti seri e concentrati sull’orario e sul binario giusto. Era seduto al tavolino del bar quando vicino al suo si accomodò una donna sulla quarantina.
“Scusi, saprebbe dirmi l’ora?” gli chiese
“Sono le dieci meno venti.” Rispose lui gentilmente.
“Sa, sono uscita di casa di corsa perché ero in ritardo ed ho dimenticato di prendere l’orologio. Per fortuna il mio treno è in ritardo, così ho il tempo di riprendere fiato dopo la corsa e di bermi un caffè. E’ in partenza anche lei? Mi scusi, forse sono stata troppo indiscreta” Disse lei con gentilezza
“Si, ma sono arrivato in anticipo. Così anche io ho approfittato per bere qualcosa di caldo. Vado al mio paese, ma solo per due giorni. E lei dove va di bello?” chiese Ernesto Piovani
“Raggiungo mia madre. Sa è una donna anziana e sola. Così lascio per poco la mia famiglia, ma a loro sembrerà un’eternità, e vado dalla mamma.” Rispose lei sorridendo.

La solita fredda voce di donna annunciò il treno in partenza dal binario 6. “Eccolo, è il mio. Vado. Grazie per le chiacchiere. Buona giornata e buon viaggio” e così la donna di allontanò con una piccola valigia in mano.
Ernesto Piovani si guardò intorno. C’erano molti uomini ed erano quasi tutti da soli, probabilmente in viaggio per lavoro. Poi vide una famiglia, una madre che teneva in braccio un bambino piccolissimo che salutava il marito. Si stringevano forte, poi lui si staccò da lei improvvisamente, la baciò un ultima volta si voltò e se ne andò, gli sembrava piangesse. La donna rimase ferma in piedi a fissarlo mentre lui si incamminava verso l’uscita, si strinse più forte al petto il figlioletto che pareva di dormire di un sonno senza fine e si incamminò silenziosamente verso il treno fermo al binario 9.
Gli addii sono sempre dolorosi pensò

Il grande orologio della stazione segnava ormai le dieci e dieci. Il suo treno sarebbe partito alle 11.00. Aveva ancora cinquanta minuti di attesa. Decise quindi di andare in sala di attesa. Si rimise il cappello in feltro grigio, lasciò un euro sul tavolino per il caffè prese la piccola valigia e si incamminò. Tutti attorno a lui si muovevano agitati. Entrò nella grande sala d’aspetto. C’erano altre persone sedute. Alcune leggevano il giornale, altre un libro mentre altre ancora chiacchieravano tranquillamente. Trovò una sedia libera. Si sedette e aspettò. La fredda voce di donna, ormai famigliare alle sue orecchie, continuava ad annunciare le partenze e i ritardi. Ad ogni avviso c’era qualcuno che si alzava silenziosamente e si allontanava e chi sbuffava guardando l’ora e pensando al tempo che stava perdendo. Nella sala faceva caldo, quindi si tolse il cappello e il cappotto. Poi prese il telefonino per chiamare la moglie e farle un ultimo saluto. Compose il numero, ma la comunicazione saltava, lo ricompose e ancora una volta la linea veniva a mancare. “Mi spiace, signore, ma non c’è campo. E’ strano, ma oggi non si riesce a telefonare. Pare sia saltato un ripetitore o non so cosa, per cui non c’è più copertura di rete. Speriamo che lo sistemino presto. Anche io volevo avvisare mia moglie che stasera non riesco a tornare a casa, ma non sono riuscito a farlo.” Intervenne un uomo giovane.
“La ringrazio” rispose il signor Piovani e poi chiese “Lei sa se ci sono delle cabine telefoniche? Potrei provare con la scheda…..sa con questi mezzi moderni non è che mi trovo molto bene”
“Sì ce ne sono quattro appena fuori di qui, a destra dopo la farmacia. Ma sono tutte fuori uso. Ho provato anche io a telefonare prima. I soliti vandali.” Disse l’uomo
La voce annunciò “Il signor Francesco Bignadoni è atteso con urgenza al binario 7.”
“Sono io, è la terza volta che annunciano il mio treno. Ma non pensavo che arrivassero a tanto, a chiamarmi anche per nome. Ci manca solo che adesso il capotreno venga a prendermi per le orecchie e mi trascini al mio posto vicino al finestrino. Vabbè mi sa che è tempo che vada. La saluto e faccia buon viaggio. Spero solo di riuscire ad avvisare mia moglie durante il viaggio. Arrivederci” si alzò, prese anche lui la sua piccola valigia e si allontanò.

Ernesto Piovani, lo fissò mentre usciva dalla sala d’aspetto. Poi guardò attorno a sé. C’era un signore anziano, un uomo giovane, un bambino che viaggiava da solo con un cartello appeso al collo con su scritto il nome e il cognome e la destinazione, una donna che lavorava all’uncinetto e una ragazza giovane che piangeva mentre stringeva nella mano una lettera.

“Mi scusi, si sente male?” chiese Il signor Piovani avvicinandosi.
“No. Anzi mi scusi lei per lo spettacolo indecoroso che sto dando. Sono solo pene d’amore.” Rispose la ragazza
“Pene d’amore? Ma una ragazza giovane e carina come lei che pene vuole avere. Al massimo è lei che farà penare i ragazzi” disse lui cercando di farla sorridere
“Già, dovrebbe essere così, ma in realtà non lo è.”
“Cosa le è successo, se non sono indiscreto”
“La cosa peggiore che potesse accadermi. Ieri per fare una sorpresa al mio ragazzo con cui convivo da un anno, sono uscita prima dall’ufficio e sono tornata a casa con l’idea di preparare una buona cenetta. Invece è stato lui a farmi la sorpresa……era con un'altra. E così ho deciso di andarmene per sempre. Torno a casa, dai miei genitori. Gli volevo scrivere una lettera” disse lei alzando la mani e facendo vedere un foglio con alcune parole rese illeggibili dalle lacrime
“Mi spiace” disse lui “ma si faccia forza, forse non tutto è perduto e lui verrà a cercarla”
“Ormai è troppo tardi” rispose lei. La solita voce annunciò il solito treno in partenza. La ragazza si alzò, lo salutò, si sistemò i capelli, si asciugò gli occhi, si ricompose e con dignità silenziosamente uscì anche lei dalla sala.

Ormai si stava avvicinando anche l’ora del suo treno, erano le undici meno dieci. Ernesto Piovani si rimise il cappotto, prese il cappello, la piccola valigia e si incamminò verso il pannello grande che segnalava le partenze e i binari. Ecco la solita voce di donna dare l’annuncio. Accanto a lui altre persone si muovevano verso il binario 3, come un lento e calmo fiume. Il capotreno aspettava davanti all’ultimo vagone. Biglietto alla mano tutti ordinatamente prendevano posto. Non una parola si sentiva.
Ernesto Piovani era al vagone 4 posto 76 vicino al finestrino. Sistemò la piccola valigia sopra la sua testa, si tolse il cappotto, il cappello e si sedette. Il posto accanto a lui venne presto occupato. Si guardò attorno, tutto il treno era pieno. La cosa strana è che erano tutte persone che viaggiavano da sole. Silenziosamente e compostamente presero ciascuno il proprio posto, e con sguardo rassegnato guardavano fuori come se con gli occhi cercassero qualcuno o semplicemente un po’ di conforto.

Puntuale il treno alle undici chiuse le porte e partì. Piano piano Ernesto Piovani sentì muoversi. Guardò fuori, la stazione scorreva accanto a lui, si stava allontanando. Guardò meglio e vide sua moglie Anita con i due figli, il genero, la nuora e i tre nipoti che piangevano. Cercò di richiamare la loro attenzione, chiamò la moglie picchiò il pugno sul finestrino. Si alzò e percorse il treno in senso contrario, come se volesse scendere e raggiungere la sua famiglia. “Perché sono partito. Perché sono partito” continuava a chiedersi “non volevo, voglio scendere e tornare da loro”.

Una figura in divisa gli si avvicinò, lo prese per un braccio e cercò dolcemente di tratternelo. “ Non può più scendere, almeno non fino a destinazione. Il suo treno ormai è partito. Non si preoccupi, il viaggio andrà bene eppoi prima o poi rivedrà la sua famiglia. Stia tranquillo ora e ritorni a sedersi.”
Il signor Ernesto Piovani, tornò al suo posto. Ora era perfettamente in grado di capire il rassegnato silenzio degli sguardi degli altri compagni di viaggio. Si sedette, e guardò fuori dal finestrino. Ora tutto era luce e soltanto luce.

martedì 10 aprile 2007

Una strana notte di aprile


E’ una strana notte di metà aprile. Fa caldo, ma è un caldo strano o forse Cesarina non è più abituata. E’ tornata da qualche ora dal solito week end in montagna, ma non è stato il solito fine settimana. Questa sera Cesarina ha la testa piena di pensieri, non riesce a dormire. Ormai è notte avanzata e lei si aggira ancora per casa al buio.
Indossa una semplice maglietta lunga come camicia da notte, è scalza, ha caldo, ha sete, ma non ha sonno. E’ stata per almeno 10 minuti in silenzio a guardare la luna. E’ piccola, si vede solo uno spicchio, ma è bella lo stesso.

I pensieri continuano ad accavallarsi e così i ricordi. Fantasmi del passato che sono riapparsi o che forse più semplicemente non se ne erano mai andati, era Cesarina che aveva smesso di guardarli, ma loro, loro sono sempre stati lì a guardarla e ad aspettarla. Quante vite hanno attraversato la sua. Quante volte ha cercato di fermare il tempo senza riuscirci. Quante volte ha cercato di far rivivere i ricordi. Una profonda tristezza le vela l’anima. Così affamata di vita, ma a volte così sazia. Quei ricordi così pesanti sono la sua vita così come quella speranza che un qualcosa potesse ancora succedere. Cesarina si aggrappa disperata alla convinzione che quello che le capita ha un motivo e quel motivo lo avrebbe capito e scoperto il giorno dopo. Con questa convinzione è sopravvissuta a tante cose. E’ andata in pezzi tante volte, ma è sempre riuscita a raccogliersi.

La notte è ancora giovane ma allo stesso tempo già matura. Cesarina è sempre sveglia, i pensieri le tengono compagnia.

Il computer sta suonando un CD. Cesarina continua a pensare. Pensa alla sua montagna, che poi non è sua, pensa ai suoi amici lassù, pensa ai sui fantasmi e pensa anche a quanto sia stato villano il “gentile” signor …, Cesarina è ancora a casa ad aspettare il suo invito per cena. Ma quanto era stato scorretto, per non dire altro. Fosse stato l’unico. Il problema è il credere, credere negli altri, credere nei sogni, credere…………… Lei gli aveva creduto, aveva creduto alla sua buona fede, alla sua educazione, al senso di rispetto che ognuno dovrebbe avere nei confronti degli altri. Insomma lei gli aveva creduto.

In quella lunga e calda notte non c’è solo lui a farle compagnia. Cesarina è accaldata e innervosita dal prolungarsi dell’insonnia e dal continuo correre dei pensieri. Si scopre, allunga le gambe nude sul piumone e si accarezza dolcemente il ventre e i fianchi ben disegnati. Chiude gli occhi e ricorda chi sfiorandole la pelle era rimasto sorpreso dalla sua morbidezza. In fondo non era passato così tanto tempo da quando un ultima volta un uomo aveva fatto scorrere la mano su di lei.
Chissà se quell’ultima mano si ricorda ancora di lei e della sua morbida “burrosità”, lei se la ricorda bene, purtroppo. Era la solita mano, che andava e veniva e che raccontava sempre la solita storia.

E’ buio nella stanza. Cesarina è sola, ha caldo, ora si è tolta anche la maglietta ed è rimasta con una leggera canottiera e slip. Tutto è silenzio eccetto per la voce profonda di lui che ancora sente nelle sue orecchie mentre la chiama per nome. Il suo nome pronunciato da lui le è sempre piaciuto. È strano ci si sente sempre chiamare eppure soltanto ad alcune voci rispondiamo veramente.
Chissà se si ricorda di quell’estate appena passata? Una domenica notte dei primi di agosto. Faceva caldo, c’erano le stelle che facevano da coperta. Erano sul terrazzo. Non hanno parlato tanto quella volta, è difficile parlare con lui anche se i suoi silenzi parlano per lui, parlano di lui.

Il caldo è anomalo, forse un anticipo della prossima stagione? Cesarina è ancora lì con i suoi pensieri, la mano ha abbandonato il ventre morbido e accogliente, ora si è girata sul fianco con le gambe rannicchiate. Gli occhi spalancati fissano la gatta che acciambellata ai piedi del letto muove le orecchie ad ogni piccolo rumore. Farà finta di dormire? Chissà se anche lei pensa…….e soprattutto cosa.
Niente, il sonno sembra non voler venire. Di nuovo si gira, alza una gamba verso il soffitto, l’accarezza e rimane a fissarla per qualche secondo.

Una frenata improvvisa e un botto rompono ora il silenzio e lo scorrere dei pensieri.
Cesarina ha un sussulto, anche la sua gatta si drizza sulle quattro zampe. Un incidente, il solito incidente, al solito incrocio, al solito semaforo che dopo le due di notte inizia a lampeggiare giallo. Cesarina si alza, tanto non ha sonno, e va alla finestra del salotto per guardare cosa è successo. Nulla di grave, per fortuna, nella notte anche il più piccolo fruscio viene amplificato e così quello che sembrava essere uno scontro violentissimo altro non è che un banale piccolo tamponamento.
E’ a piedi nudi, in canottiera e slip, ma non ha freddo, incrocia le braccia si guarda attorno, non ha nemmeno acceso la luce, si sente un fantasma.
Ora un piccolo lume si accende, è quello del frigo. Chissà forse un bicchiere d’acqua può aiutare a conciliare il sonno.

Ma quanto manca all’alba? Sono solo le tre, le tre di un lunedì mattina.

Uno sbadiglio. Forse il sonno si avvicina. Cesarina va di nuovo a letto. Si allunga sul piumone, si accarezza nuovamente il ventre e i fianchi ben disegnati, pensando che sia la mano dell’amato a sfiorarla e chiude gli occhi sperando che Morfeo venga presto a strapparla a quella forzata veglia e questa volta sul serio.

Pensieri

Ora è notte fonda. Tutto sembra essersi fermato, tutto è silenzio. Milano dorme, o quasi, solo il pulsare dei semafori la tiene sveglia, ogni tanto qualche auto sfreccia velocemente lungo il viale sotto casa. Le luci nelle case sono quasi tutte spente, soltanto qualcuna è ancora accesa. Chissà a chi servirà. Forse è una coppia che sta facendo l’amore, forse è un uomo che sta ancora lavorando, forse è un ragazzo che sta guardando la televisione, forse è di qualcuno che non riesce a dormire. Forse.
La mia è spenta ed io non riesco a prendere sonno, vorrei tanto essere quella coppia che sta facendo l’amore, vorrei tanto poter far l’amore con Morfeo.

lunedì 9 aprile 2007

Simpatica zitella offresi. No perditempo.

So di non essere una brutta donna. I miei ricordi della mia bellezza risalgono a quando ero piccola. Una bambolotta carina, con dei bellissimi boccoli biondi e grandi occhi azzurri. Poi non so cosa è successo, ma qualcosa deve essere successo altrimenti non mi spiego perché nonostante tutto io abbia sempre fatto una fatica terribile per avvicinare e farmi avvicinare dagli uomini.
Ancora adesso, mi sento dire dalle vecchiette del mio condominio che incontro in ascensore – otto piani sono lunghi da fare - : “ma lei che è così carina, sarà piena di spasimanti! Dica le verità è lei che ha gusti difficili…!” Certo, come no, di spasimanti ne ho a bizzeffe, eppoi … io di gusti difficili…suvvia, non sia mai!
La verità è molto più triste, nonostante un passato da bambina da pubblicità, dietro la mia porta non c’è nessuno. Già perché nella realtà non basta essere carina, né simpatica. Bisogna anche essere gatta-morta. E qui la questione diventa difficile, perché gatta-morta ci si nasce non si può diventare.
Confesso senza vergogna che la mia è solo e soltanto invidia. Vorrei tanto come loro miagolare parole spesso senza senso e strusciandomi sui calzoni ottenere tutto quello che voglio, ma non ci riesco…mentre sono brava a far ridere e a prendermi in giro. Almeno sono divertente, ma nonostante i sorrisi spesso mi ritrovo con una porta chiusa in faccia. E così sono stufa di sentire le solite frasi: “Margherita, sei davvero una bella persona, ma sei troppo impegnativa, in questo momento non posso darti ciò che tu vorresti”…ma tu sai cosa vorrei? Te l’ho forse mai detto? Me lo hai mai chiesto? No…, ed allora aspetta a rimandarmi al mittente.
Ma c’è anche quello che pensando di dirti una cosa carina in realtà ti offende a morte: “Margherita, sei una donna dolcissima, e soprattutto sei bella dentro!” …bella dentro? Bella dentro? E che cosa vuol dire…bella dentro? E fuori? Sono così inguardabile?
O ancora, questa è la categoria più romantica: ”Siamo partiti senza una meta, ciò che ci teneva uniti era la passione e la voglia di stare insieme…ora è arrivata la mia destinazione, devo scendere da questo treno. Sono contento però di aver conosciuto una persona fantastica come te e di aver fatto almeno tre fermate insieme”. Ma cosa sono, sono forse un vagone della linea metropolitana Gialla di Milano? Cos’è … siamo saliti insieme a Duomo e tu scendi a Porta Romana? E la cosa buffa o drammatica è che io per stare con lui, ho preso il treno nella direzione opposta alla mia, io devo scendere a alla fermata Sondrio.
Queste sono frasi vere che mi sono sentita dire. Sempre le stesse parole, sempre le stesse scuse ripetute da tutti gli “ometti”, sia dai belli, che fanno la doccia con il doccia schiuma della “compagnia delle Indie” e sia dai simpatici che cercano di spremerti un limone sulla testa per cercare di aprirti, neanche tu fossi una cozza.
Nel frattempo io continuo a essere sola, l’ultimo uomo che è entrato nella mia vita se ne è uscito il mattino presto dicendo che andava a comprare le sigarette in metropolitana dove ha incontrato una sua amica che stava prendendo il treno e così si è fatto altre 4 fermate, e poi non è riuscito più a tornare da me perché mi amava troppo e non voleva farmi soffrire perché sono una donna troppo dolce!
E così ho imparato che al cuore i calli non vengono mai, ma solo dolorose vesciche che impiegano tanto a guarire. Ho imparato a diffidare di chiunque. Ho imparato anche a non credere più a nessuna parola e che se qualcuno mi vuole lo devo dimostrare e mi deve prendere. Per questo: simpatica zitella offresi, no perditempo.

Il gioco delle parti


E’ notte e lui mi ha cercata, come sempre.
Lo sapevo che lo avrebbe fatto. Non so dire il perché ma in fondo me lo sentivo.
L’avevo visto non più di mezz’ora prima al solito aperitivo. Non era stato particolarmente simpatico, anzi era stato abbastanza scostante. Così dopo averlo salutato l’ho lasciato lì in compagnia dei suoi amici e delle sue donnine, ma sapevo che mi avrebbe cercata,…….dopo.

Sono tornata a casa da poco. Ho caldo, fa caldo. Ho accarezzato la mia gatta, ho dato da bere alle piante, ho spalancato la finestra del salotto. Mi sono spogliata, mi sono messa una sottoveste nera di seta con una semplice e leggera vestaglia a Kimono, ho spento la luce ed ora al buio lo sto aspettando.

“20 min e arrivo” Si muovesse! Invece di perdere tempo in inutili saluti e convenevoli con altri e altre. Si muovesse! Ho voglia di vederlo, di sentirlo, di toccarlo, di stringerlo. Inizio a ripensare all’ultima volta che ci siamo visti. Al solo pensiero mi sento ancora scombussolare dentro.

“9 min e ci sono. Preparati” Sono già pronta. Lo sto aspettando, sapevo che sarebbe tornato da me qui. Lo sapevo. Ho voglia di assaggiare ancora il suo sapore. Si sbrigasse, possibile che ci sia tutto questo traffico? E’ quasi mezzanotte. Fa veramente caldo, guardo fuori dal balcone. Tutto è buio. Bevo un bicchiere d’acqua per ingannare il tempo.

“2 min. Ti voglio senza censure” Senza censure……. Adesso che inizio a conoscerlo inizio a dimenticarmele le censure. Adesso che inizio a conoscere il suo corpo so cosa fare.

Ecco finalmente, il citofono. E’ lui, è arrivato, solo 8 piani di ascensore eppoi………

Entra, si toglie la giacca. Non ho acceso la luce. Amo il buio, ama il buio. Mi si avvicina, mi prende le mani e me le stringe forte; io gli sussurro “so cosa vuoi da me stasera”. Lui non risponde, ma mi sorride guardandomi dritto negli occhi con aria di sfida. Mi slaccia la sottile vestaglia sfilandomela ed inizia ad accarezzarmi sui morbidi fianchi. Mi fanno impazzire le sue mani su di me. Mi è sempre piaciuto, ed ora è qui ed è stato lui a cercarmi dopo che io lo avevo aspettato per tanto tempo.
Chiudo gli occhi, mi gira, mi abbraccia da dietro, mi bacia sul collo, sa di fumo e di alcool. Mi chiama per nome e mi dice “stasera comando io”. Non obbietto nulla, comanda lui. Lascio che le sue mani scivolino sulla seta della mia corta sottoveste. Continua ad accarezzarmi, poi piano piano mi sfila una spallina, poi l’altra. Rimango nuda. Mi volto. Lo guardo negli occhi, li tiene chiusi, sta vedendo con le mani, con il naso, con la bocca.
Avvicino il mio naso al suo viso, lo annuso. Voglio ubriacarmi del suo odore, poi gli annuso il collo, lo bacio di un caldo bacio, poi gli sfioro le labbra, prima con il naso, poi con la bocca e poi delicatamente gliele apro con la lingua. Ora non è più lui a comandare.
Mi piace il suo corpo, ho sempre pensato che si adattasse al mio in modo perfetto. Alto giusto, della corporatura giusta e con due braccia forti e accoglienti. Mi piace il suo odore, sa sempre un po’ di fumo, mi piace il suo sapore, passerei le ore a gustarlo come una rara e preziosa pietanza.
Sono nuda, ma lui no. Gli infilo le mani sotto la maglietta, gli accarezzo il petto e gliela sfilo. Continuo a baciarlo non riesco a smetterla, lui ha sempre gli occhi chiusi è immobile. Ora gli sbottono i jeans, ecco si muove, mi aiuta poi improvvisamente mi afferra forte e mi ripete che è lui a comandare. Mi solleva mi bacia il seno e mi sdraia sul divano. E’ sempre buio, fa sempre caldo, ho sempre caldo. Io sono immobilizzata dalla sua presa. Mi bacia il seno, mi accarezza il ventre, mi guarda e sorride. Non riesco a muovermi, lui mi è sopra. E’ pesante, faccio fatica a respirare, ma mi piace. Mi sento come stretta tra le spire di un grande serpente che mi avvolge fino a farmi soffocare. Chiudo gli occhi e ascolto le sue mani e la sua bocca che parlano sulla mia pelle. Comanda lui.

Improvvisamente si ferma, ha gli occhi chiusi, allenta la presa. Io riesco a liberarmi. Lui si siede sul divano ed io sopra di lui. Gli accarezzo la testa, mi sembra perfetta. Gli accarezzo il viso, gli tocco i lineamenti, voglio vederlo anche con le mani. Mi bacia, io mi allontano e poi nuovamente mi avvicino a concedere tutta la mia bocca. Le mie mani scivolano sulle sue spalle, sulle sue braccia, sui suoi fianchi, sul suo piacere. Non comanda più lui.
So che gli piace e a me piace questo. Piano piano scivolo giù per ritrovarmi in ginocchio tra le sue gambe. Le sue mani abbandonano il mio seno e le sue dita si intrecciano ai miei capelli schiacciandomi il viso sul suo ventre, sul suo piacere. Non so chi comanda ora.
Poi mi prende la testa, mi alza, mi porta sul letto.
E’ buio, è silenzio. Il suo respiro a volte interrotto, a volte affannato parla per lui ed io lo ascolto così come ascolto le sue mani ed ora il suo piacere che cresce in me.
Sono davvero immobilizzata. Comanda nuovamente lui. Io sono sotto, non riesco opporre nessuna resistenza, ma in fondo non ne voglio opporre. Voglio solo subirlo, così come ho sempre fatto tutte le altre che lui mi ha cercato. Subire il piacere da tempo aspettato e vederlo poi andare via. Comanda ancora lui.
Il suo respiro ora è forte, rapido e si confonde con il mio. Il suo piacere ora è mio ed il mio è suo ed è lui a comandare ora.
Tutto finisce improvvisamente. Tutto è finito. Lui si è lasciato andare su di me. Ora mi sta accarezzando. I cuori battono forte e gli affanni si stanno calmando. Con una mano gli accarezzo la schiena e con l’altra la testa. Me lo stringo al petto con tutte le mie forze vorrei poterlo tenere sempre dentro di me, ma non posso. Lui se ne deve andare. Comanda lui. Ma in fondo so che tornerà una notte in cui io lo aspetterò. Ed io riconoscerò il suo odore, il suo sapore. Accarezzerò e toccherò il suo corpo con la sapienza di chi lo ha sempre conosciuto. Devo solo aspettare, al buio e lui tornerà ad appoggiare nuovamente le sue mani sui miei fianchi morbidi, sui miei seni generosi e su di me. Lo so che gli piaccio. Ed allora comanderò io.

Pensieri


Sono tornata da poco a casa a Milano. Ho trascorso tre giorni in montagna, tra le mie montagne, che poi mie non sono. Fuori un tramonto rosso sta incendiando tutta la città. E’ bella la mia città. Qui mi sento tranquilla e protetta, qui ho i miei ricordi di bambina, qui mia madre nel suo non essere più mi ha insegnato ad essere, a vivere, a pensare e ad amare. Se chiudo gli occhi ancora la rivedo ai giardinetti di Villa Reale di via Palestro mentre seduta sulla panchina ci guardava giocare. Se chiudo gli occhi la rivedo ancora elegante che mi portava con sè alla Scala a vedere i balletti. Se chiudo gli occhi la ricordo ancora in piazza del Duomo quando si andava a comprare il palloncino a cui legare la lettera per Gesù Bambino che poi avremmo lasciato volare in cielo, quando io ero bambina i regali non li portava Babbo Natale. Se chiudo gli occhi la rivedo ancora uscire di casa con il suo cappotto per andare in ospedale, ecco questa è l’ultima cosa che ricordo e che vedo di lei. Se ne è uscita di casa, dalla vita, dalla mia vita senza far rumore, in silenzio. Se chiudo gli occhi ricordo ancora, il suo sorriso, i suoi occhi, le sue mani lunghe ed eleganti. Se chiudo le orecchie però non ricordo più il suono della sua voce che mi chiama, ma ascolto un terribile e rumoroso silenzio che mi accompagna da tutta una vita. Ormai mi sono abituata e a volte non ci faccio più neanche caso, ma mi piace pensare che mia madre sia con me in questo momento e che possa vedere la sua Milano bruciata dal tramonto attraverso i miei occhi.

La Luna e Margherita


C’era una volta la Luna ed il suo Re, che viveva tutto solo in un grande e meraviglioso palazzo bianco. Aveva pochi servitori e passava le sue giornate a guardare le stelle e la Terra con tutti i suoi mille colori.
Non c’è molta luce sulla Luna, tutto è penombra; non ci sono colori, tutto è bianco; non ci sono rumori, tutto è silenzio; non c’è la notte e neanche il giorno; tutto è triste e malinconico, così come tristi e malinconici erano gli occhi del Re della Luna. Profondi e scuri come la notte più buia e sempre alla ricerca di qualche cosa, ma senza sapere di cosa.

Una non-notte della Luna, il Re guardando verso la Terra dal suo palazzo bianco, incrociò lo sguardo di una ragazza: Margherita. Anche lei cercava qualcosa, qualcosa che aveva perduto pur non avendolo mai avuto. Aveva gli occhi blu come il cielo e anche i suoi erano coperti da un velo di tristezza. Ogni notte alzava lo sguardo al cielo e alle stelle, cercava……, sperava,……..sognava.

Una sera d’estate in cui il caldo era insopportabile, Margherita decise di andare a rinfrescarsi al lago. Lasciò i vestiti sulla spiaggia, e si lasciò avvolgere dalle acque, accarezzata dalle piccole onde. Guardò il cielo, guardò le stelle, guardò la luna eppoi chiuse gli occhi……cercando, sperando, sognando.
Il Re della Luna la vide mentre sembrava dormire sulle acque ed ordinò al suo raggio più lungo di scendere sulla Terra e rapirla. E così fu.

Il raggio la sollevò dalle acque, l’abbracciò e cullandola come braccia materne la trasportò sulla Luna. Margherita non si accorse di nulla, continuava a dormire. Si risvegliò dopo molto tempo, in un palazzo che non era casa sua, in un letto che non era il suo. Tutto era bianco e silenzio. Accanto a lei era il Re della Luna che la guardava con i suoi occhi scuri e profondi che ora brillavano di una luce particolare.
“Ecco cosa cercavo da sempre!” le disse guardandola, “ecco da chi volevo essere trovata!” rispose lei, ed anche i suoi occhi avevano perso quel non so che di tristezza.
I due innamorati passavano le ore, i giorni, i mesi a guardarsi. Non avevano bisogno di parole, a loro bastava stare vicino per ascoltarsi, e parlarsi.
Il tempo passava e la vita sulla Luna non giovava a Margherita. Lei era abituata alla Terra, al giorno, alla notte, ai colori e alla luce; cominciava ad indebolirsi. Un non-giorno il Re della Luna le disse che se voleva sopravvivere doveva tornare sulla Terra dove c’era luce, colore, giorno e notte. Ma Margherita non voleva sentire ragioni, voleva stare con lui: “I tuoi occhi scuri e profondi saranno la mia notte, il tuo sorriso sarà il mio giorno, i tuoi abbracci saranno i miei colori, i tuoi baci la mia luce!”

Nonostante queste parole, Margherita continuava a stare male e così una non-notte il Re della Luna con il cuore gonfio di tristezza prese la più dolorosa decisione della sua vita. Si avvicinò al letto dove Margherita dormiva, l’accarezzò un’ultima volta, la guardò, la baciò, se la strinse forte al petto come se volesse conservare dentro di se il suo profumo e poi la consegnò al suo raggio più lungo perché la riportasse al lago.

Era una sera d’estate in cui il caldo era insopportabile e Margherita galleggiava come accarezzata e cullata dalle acque. Si svegliò improvvisamente con una fortissima fitta al petto come se qualcuno le stesse strappando il cuore e come prima cosa alzò lo sguardo al cielo cercando la Luna, cercando qualcosa che aveva perduto ma non ricordava cosa. Dagli occhi tristi le scesero due lacrime che si trasformarono in piccoli brillanti.

Il Re della Luna aveva fatto in modo che lei perdesse il ricordo di quello che era stato. Ma se i ricordi si possono cancellare, l’amore no. E così Margherita ogni volta che c’è la luna si mette a cercarla e guardarla con i suoi grandi occhi blu tristi, tocca i brillanti fatti con le lacrime della luna e sospira in attesa di qualcosa, del suo amore, che ogni notte la guarda dal suo palazzo bianco e le manda il suo raggio più lungo ad accarezzarla e a baciarla per lui.

martedì 3 aprile 2007

Il condominio


Improvvisamente a Milano dove un tempo c’era il luna park delle Varesine, in viale della Liberazione, è cresciuto in pochissime settimane un nuovo condominio. Gli abitanti della zona se ne accorsero solo quando il nuovo grattacielo con la sua altezza nascondeva a loro la luce del sole.
Il palazzone era enorme, bello a vedersi e realizzato con materiali che sembravano molto costosi. Tre porte d’ingresso, cinque ascensori, quindici piani e dai cinque agli otto appartamenti per piano.
Il caseggiato era di forma quasi circolare, sembrava un grande cilindro non chiuso, l’unico anello completo era quello del tetto che ricopriva tutto il palazzo e faceva da grande e altissimo arco nella parte dove l’edificio rimaneva aperto. Dentro c’era un piccolo giardino ben curato, alcuni giochi per i bambini, lo scivolo, l’altalena, delle panchine per le mamme e qualche pianta.
All’esterno la facciata, di ferro e grandi finestre di vetro brunito, era perfettamente liscia. Gli unici balconi si aprivano sull’interno, mentre il tetto dalla morbida forma ricurva era un enorme terrazzo verde di piante e colorato di fiori diviso in più parti a seconda del numero degli appartamenti sottostanti. C’era qualcuno che aveva fatto mettere anche una piccola piscina privata.
Dall’alto dei quindici piani si godeva una vista spettacolare e unica in tutta Milano. Nelle giornate limpide le montagne di Lecco sembravano talmente vicine da poterle quasi toccare. Si vedeva il grattacielo Pirelli, la Madonnina del Duomo, e la stazione di Porta Garibaldi così piccola da sembrare quasi un modellino. Insomma era un condominio di grande prestigio. Fuori sul portone c’era ancora un cartello che diceva: "vendesi appartamenti signorili di diverse metrature".
23 maggio. Il signor Umberto Pirola era lì fuori seduto su una panchina che aspettava l’agente immobiliare per andare a vedere una proposta di vendita. Era un uomo di circa sessant’anni, preciso e abitudinario. Guardò il suo orologio: le 19.05. L’agente immobiliare era in ritardo. Pirola detestava aspettare. Nell’attesa osservava con attenzione il nuovo palazzo. La gente che entrava e usciva sembrava molto per bene e tranquilla: mamme con i bambini, anziani con il cane, uomini con la ventiquattr’ore in mano e così via. Insomma sembrava il solito condominio del centro di Milano dove nessuno dei condomini conosce il proprio vicino. Guardò ancora l’ora: le 19.10. Poi per la stanchezza della giornata di lavoro chiuse gli occhi, respirò profondamente e si lasciò andare a liberi pensieri, quando improvvisamente sentì: "Signore si sente bene?"
"Si, si tutto bene" rispose lui aprendo gli occhi e guardò nuovamente l’ora. Le 19.10.
"Il Signor Pirola, giusto?" era una donna, sulla quarantina bionda finta, tailleur blu e tacchi a spillo, nell’insieme una bella donna anche se con un qualcosa di strano che non lo convinceva.
"Si, sono io" rispose. Poi si alzò dalla panchina e allungò la mano verso la signora.
"Buona sera, sono Anna Salas. Mi scusi per il ritardo, ma ero esattamente dall’altra parte della città per un’altra casa. Per fortuna tutto è circolare qui e seguendo la circonvallazione eccomi qui. Sa è da poco che vivo a Milano e le strade ancora non le conosco, per cui viaggio sempre in tondo e prima o poi arrivo." Disse la donna presentandosi.
"Se mi vuole seguire…..le faccio strada. Come vede il palazzo è nuovo. Le rifiniture utilizzate sono tutte di altissima qualità. Il palazzo ha quindici piani, ma già da quello che le ho proposto, l’OTTO si gode un’ottima vista. Ci sono cinque ascensori così da non creare inconvenienti negli orari di punta.." Anna Salas continuava a parlare mentre il Signor Pirola lo seguiva guardandosi bene attorno.
Attraversarono l’ingresso, una nuova passatoia rossa segnava loro la strada. L’ascensore era anch’esso rotondo e fatto di vetri bruniti, durante la salita si poteva vedere Milano dall’alto come se ci si trovasse su di una ruota panoramica. Una vola dentro la cabina la donna disse "OTTO" poi si voltò verso Pirola sorrise e spiegò "vede questo è un nuovo e moderno sistema, basta pronunciare il piano a cui si vuole andare che l’ascensore sale. E’ comodissimo. Pensi a quando si hanno tutte le mani impegnate e bisogna fare i numeri a quattro per riuscire a schiacciare il pulsante giusto. Così è sufficiente dire il piano vicino a questo piccolo microfonino e basta". Pirola era ammutolito e continuava a guardarsi attorno con meraviglia mentre salivano.
L’appartamento che gli avevano proposto era all’ottavo piano, non tanto alto rispetto al palazzo, ma abbastanza da sovrastare le case attorno. Era di circa 100 mq. Una cucina abitabile, un salotto con angolo da pranzo, due camere da letto uno studiolo piccolino e due bagni di cui uno microscopico. Le stanze si affacciavano sia sull’esterno del palazzo che sull’interno tramite due piccoli balconcini.
Sembrava perfetto.
"Allora, le piace?" intervenne ancora una volta la donna "della metratura giusta per una giovane coppia di sposi con un bambino. L’Architetto nel progettare il palazzo ha osato molto giocare con il tema del circolare, della fine che è il principio e del principio che è la fine. Certo inizialmente l’edificio aveva una forma perfettamente rotonda, ma questo creava dei grossi problemi, la luce per esempio….. molti degli appartamenti ai piani bassi che davano sull’interno sarebbero rimasti al buio, eppoi si era venuta a creare per non si sa quale motivo un campo energetico particolare, per cui le onde della TV satellitare che dei telefonini rimanevano infastidite."
"Molto bello!" commentò Umberto Pirola. "anche il prezzo mi sembra possa essere giusto per questo tipo di appartamento. Sarebbe possibile venire domani con mia moglie a vederlo? Sa ci terrei fosse anche lei a esprimere un giudizio."
"Non c’è problema, se riuscite vi aspetto allora domani all’ora di oggi. Mi scusi tanto, ma adesso devo salutarla. Ho un altro impegno." Disse con gentile fretta Anna Salas
"Va bene, la seguo anche nella discesa allora…….." rispose il signor Pirola e si diressero, dopo aver chiuso casa verso l’ascensore. Una volta entrati la signora disse "ZERO" e mentre le porte si stavano chiudendo uscì si voltò e disse "ho dimenticato una cosa, inizi a scendere, ci vediamo dopo". Umberto Pirola iniziò a scendere. I piani passavano e lui poteva vedere la gente per la strada diventare sempre più grande ed avvicinarsi. Lentamente arrivò al piano terra, ma niente l’ascensore non si fermò. Tutto divenne buio, non si vedeva più la strada ma solo una fredda parete.
Il signor Pirola cominciò ad agitarsi. L’acensore continuava a scendere, si avvicinò all’elenco dei tasti, andavano dal quindici allo zero e poi c’erano la S e la I.
S sarà stato Sotterraneo, ma la I? Intanto la sua discesa continuava. Si sentiva come una bestia in gabbia. Provò a urlare ZERO, ma nulla la cabina non si fermava. Provò con UNO, con DUE, con TRE riprovò anche con OTTO, ma nulla da fare.
Gli era venuto caldo e gli mancava l’aria. Attraverso il vetro della cabina vedeva una parete grigia ed ogni tanto dei pianerottoli. Dove stava andando? Dall’altra parte della città anche lui come la signora Anna Salas? Se avesse continuato a scendere così in breve tempo si sarebbe trovato in Cina.
Improvvisamente l’ascensore si fermò. Le porte si aprirono e il signor Pirola si trovò davanti un pianerottolo esattamente speculare a quello che aveva appena visto dove c’era l’appartamento in vendita, era come se tutto fosse invertito.
La fine diventa il principio, il principio la fine, ciò che sta sopra sta sotto ma all’opposto. Uscì timoroso dall’ascensore e a piccoli passi procedeva sulla passatoia rossa. Una porta si aprì. Uscì una giovane donna sui trentacinque anni. "Buonasera" gli disse incrociando il suo sguardo
"Buonasera" rispose il Pirola ancora timoroso "saprebbe dirmi a che piano sono?"
""Siamo al meno OTTO" rispose la ragazza
"Al – 8" ripetè lui "come – 8? vuol dire che questo palazzo si sviluppa anche sottoterra?"
"Certo. E’ un nuovo progetto dell’Architetto. Ciò che sta sopra sta anche sotto uguale ma capovolto. Geniale non trova? Non cambia nulla. Quando si è al primo piano si vorrebbe essere al piano 15, il più alto, mentre qui sotto si vuole il più profondo: il – 15. Buffo, vero? Eppure è logico, è la logica." rispose lei mentre saliva in ascensore.
"sta andando in superficie? La seguo devo assolutamente uscire" disse Pirola seguendola
"No non vado al piano Terra, devo andare al –4 da mia madre" se vuole almeno fin lì le posso dare un passaggio. Salirono in ascensore e la ragazza disse "- QUATTRO".
Le porte si chiusero e l’ascensore cominciò a salire piano. Arrivati al piano la donna scese e Pirola non fece in tempo a pronunciare "ZERO" che le porte si richiusero e venne richiamato al – 15.
La discesa sembrava interminabile. La parete grigia si alternava ai pianerottoli illuminati. Finalmente la cabina si bloccò e le porte si riaprirono.
Pirola uscì, di fronte a lui c’era un signore. "Buonasera, l’ho chiamata io inavvertitamente, forse." gli disse guardandolo fisso. Aveva gli occhi piccoli e neri come la pece che ogni tanto sembravano emettere degli strani bagliori. Pirola ebbe un fremito di paura. L’aria attorno si era fatta insostenibilmente calda e così sudando e sbuffando si tolse la giacca e se la mise sul braccio.
"Già fa sempre caldo qui giù, non come su al +quindici. Per fortuna hanno inventato l’aria condizionata. In casa mia si sta benissimo". Disse il signore sconosciuto. La bocca la si vedeva pochissimo, era nascosta da un paio di baffi neri lunghi, sottili e molto curati. Avrà avuto anche lui sessant’anni. Non sembrava particolarmente in forma, i chili di troppo lo facevano assomigliare ad un pinguino. Il signor Pirola era a disagio, inquieto. Non riusciva a capire perché ma qualche cosa lo turbava in quell’uomo.
"Le piace il palazzo. Io sono l’Architetto. E’ il lavoro di tutta la mia vita. Il mio progetto, non le dico che cosa mi è costato. Si potrebbe dire che mi è costato l’anima" disse ridendo sguaiatamente poi di colpo smise e aggiunse con voce triste "già l’anima. Tutti ne hanno una, giusto? Si tratta si sapere dove si nasconde ed una volta trovata non è difficile portarla via." I suoi occhi cercarono quelli del Signor Pirola .
"Cosa ne pensa del pensiero di una vita o della vita, magari del per sempre. Ho voluto progettare la continuità anche negli opposti. Il palazzo rotondo e speculare anche nel sotto-sopra. Tutto è uguale, ma capovolto. C’è un piano 5 sopra ed un 5 sotto. Buffo, non trova? O soltanto geniale! Questa è la stessa realtà di sopra, ma inversa perché si è sotto, si è capovolti. L’alto è il più profondo qui. Qui il tempo va al contrario, ma continua a scorrere lo stesso. Se guarda l’orologio vedrà che le sue lancette si muovono in senso inverso." Il signor Pirola guardò subito il quadrante vide il segnasecondi girare al contrario. Rimase senza parola, non capiva, continuava a non capire, o forse tutto gli era così chiaro che non riusciva a crederci.
"ui il tempo va al contrario
E’ venuto qui per comprare un appartamento, vero? So che ce ne sono ancora in vendita al piano +OTTO, ma anche al –OTTO c’è qualcosa. Quello che ha visto lei è al + OTTO giusto? Le è piaciuto. Domani allora torna con sua moglie?" disse l’Architetto fregandosi le mani piccole e un po’ grassottelle.
"Come fa a sapere tutte queste cose" disse il Signor Pirola indietreggiando
"Come faccio a saperle? Signor mio, io sono l’Architetto, gliel’ho appena detto. Mi chiamo Angelo Lived e questo palazzo mi appartiene così come io appartengo a lui. Non c’è nulla che mi sfugge o che io non sappia" rispose avvicinandosi e fissandolo in continuazione con quei piccoli neri e scintillanti occhietti.
"Si" rispose timoroso Pirola "mi sembra molto bello questo palazzo. Ma ci devo pensare bene, comunque domani verrò con mia moglie se riesco ad uscire….." e abbozzò un sorriso tirato.
"Già qui tutto è semplicemente perfetto. D’altra parte l’ho creato io. Nulla è stato lasciato al caso, qui il caso non esiste" ribadì l’Architetto e aggiunse "…..se riesce ad uscire….. Signor mio, perché non dovrebbe riuscirci? Ha forse venduto anche lei l’anima?" da sotto i sottili baffi neri si vedevano le labbra piegarsi in un abbozzo di sorriso
"Ma cosa sta dicendo. Vendere l’anima io………….?! Mai e poi mai!" disse fermamente Il signor Pirola "sono venuto qui solo per vedere un appartamento, ed ora mi lasci andare che ho fretta".
"Già, la fretta, ma qui non esiste più la fretta. Il tempo non esiste più, esiste l’eterno, e l’eterno non può avere un tempo. I minuti che perde di sopra li riguadagna scendendo sotto, si ricorda? qui tutto è al contrario. Per cui non si preoccupi tutto quello che perde lo recupera ed andrà in pari." lo rassicurò l’Architetto Lived e poi aggiunse "Vede signor mio, questo palazzo è perfetto, o quasi. E’ il piano OTTO che mi da dei problemi. OTTO sopra, OTTO sotto, OTTO si può leggere al contrario e si scrive con un unica linea continua che non finisce ma che si incrocia: la fine è l’inizio e l’inizio è la fine in un punto solo al centro. OTTO! ho provato a rivedere il progetto, ma non c’è stato nulla da fare. Così ogni tanto qualche persona che va vedere l’appartamento all’ottavo piano sopra si ritrova poi all’ottavo piano sotto: la linea continua che si incrocia. Normale, vero?" spiegò l’Architetto "Per non parlare della mia assistente Anna Salas. E’ nuova ed ancora non ha capito bene che tipo di acquirenti voglio. Sa, nel mio palazzo devono abitare solo persone di un certo tipo." e smise di parlare, i suoi piccoli occhietti porcini neri come la pece continuavano a fissarlo.
Il signor Pirola, non sapeva che fare. Deglutì, fece dei passi indietro entrò nella cabina dell’ascensore, non riusciva a pronunciare neanche una parola.
"Ora la saluto. Grazie per la visita e chissà mai che un domani non ci si riveda" e scoppiò in una fragorosa e sguaiata poi improvvisamente si ricompose "ZERO" disse con voce ferma. Le ultime cose che il Signor Pirola registrò con la sua mente furono quei piccoli occhietti neri come la pece che misteriosamente sembravano prendere fuoco, il caldo soffocante e la paura, poi perse i sensi
23 maggio. Il signor Umberto Pirola era lì fuori seduto su una panchina. Detestava aspettare. Gli occhi chiusi, quando improvvisamente sentì: "Signore si sente bene?"
"Si, si tutto bene" rispose lui aprendo gli occhi e guardò nuovamente l’ora: le 19.10. Non era passato neanche un minuto da quando aveva guardato per l’ultima volta l’orologio. Alzòlo sguardo, registrò quello che gli stava attorno, tutto era normale come se non fosse successo nulla e come uno che si sveglia dopo un terribile incubo si sentì stranito. Si alzò dalla panchina e allungò la mano verso la signora.
"Buona sera, sono Anna Salas. Mi scusi per il ritardo, ma ero esattamente dall’altra parte della città per un’altra casa. Per fortuna tutto è circolare qui e seguendo la circonvallazione eccomi qui. Sa è da poco che vivo a Milano e le strade ancora non le conosco, per cui viaggio sempre in tondo e prima o poi arrivo. Se mi vuole seguire…..le faccio strada. Come vede il palazzo è nuovo. Le rifiniture utilizzate sono tutte di altissima qualità. Il palazzo ha quindici piani, ma già da quello che le ho proposto, l’OTTO si gode un’ottima vista……"

Le parole del silenzio


L’aria calda entrava dal finestrino dell’auto completamente abbassato. Tutto attorno era silenzio e grandi spazi. Spazi di biondo grano che si muoveva come le onde del mare spinte dal vento.
Agnese guardava fuori, la testa appoggiata sulla mano che cercava di tenere fermi i capelli spettinati dal vento. Giampaolo guidava, anche lui con il finestrino aperto e il gomito appoggiato fuori. La strada era dritta e stretta, per fortuna non c’era nessun altro oltre loro.
Erano in viaggio già da un po’. Avevano abbandonato l’autostrada per seguire una piccola e sconosciuta strada che si perdeva tra i campi.
La meta? Un piccolo alberghetto, su un piccolo colle con una grande vista. Un po’ di serenità e tranquillità. Era da tanto tempo, forse troppo che Agnese a Giampaolo non riuscivano più a sentirsi. Qualcosa si era rotto, non erano più in sintonia viaggiavano su frequenze diverse. Anche il silenzio che parlava a loro, per loro e di loro non era più lo stesso. Ora era un semplice silenzio, vuoto e fatto di frinire di cicale, rumore del motore e radio che suonava, ma non di parole non dette.
Attorno tutto era estate. I campi gialli per il sole, gli alberi fronzuti e verdi, i profumi intensi di fieno e fiori, gli uccelli che volteggiavano nel cielo e il caldo, quel caldo che si appiccicava alla pelle fino a non farla respirare più. Mancavano pochi giorni alle vacanze, ma Agnese e Giampaolo avevano deciso lo stesso di concedersi un fine settimana diverso lontano dalla città, dalla sua afa asfissiante, dai suoi odori estivi mefitici, dai suoi rumori molesti che entravano nelle case dalle finestre lasciate aperte.
Si conoscevano da anni, ma si può dire che si conoscevano solo da un anno, quando in una afosa serata dell’estate precedente si erano guardati veramente per quello che erano. Lui le aveva chiesto di passarla insieme e lei aveva accettato. Così era cominciato il tutto o il niente. Quella notte si erano amati come mai avevano amato. I loro silenzi avevano imparato a parlarsi, si amavano. Non si ascoltavano più, si sentivano.
La macchina continuava a correre lungo la strada. Agnese un po’ stranita per la troppa aria guardava fuori, avrebbe voluto che il tempo si fermasse, avrebbe voluto che lui si fermasse, la guardasse come quella notte d’agosto di un anno prima e l’amasse ancora una volta con la stessa passione delle prime volte.
"Che spettacolo!" disse.
"Già", rispose Giampaolo senza neanche guardarla negli occhi, poi allungò la mano e gliela mise sul ginocchio più per abitudine che per affetto. Agnese in modo automatico rispose al gesto appoggiando la sua su quella di lui e gliela strinse, senza guardarlo.
Ancora silenzio.
Perché avevano smesso di sentirsi? Che cosa si era rotto? Cos’era cambiato? Nulla, era la risposta che si davano, non era successo nulla di diverso dal solito ed allora perché improvvisamente quel silenzio non raccontava più a loro di loro, ma era diventato assordante e fastidioso? Non ne avevano mai parlato, avevano quasi paura che a parlarne qualcosa si rompesse e che parole inopportune potessero rovinare tutto.
Agnese si voltò per guardarlo, le piaceva follemente. Giampaolo era tutto concentrato alla guida. Alto ed elegante era il ragazzo più bello con cui era mai stata. Indossava la sua solita Lacoste verde e i jeans. Teneva il braccio sinistro fuori dal finestrino mentre con il destro stringeva il volante. Portava gli occhiali che lei gli aveva regalato, un paio di Ray-ban a goccia con le lenti verdi. A vederlo così con quei capelli, le basette e i baffi sembrava uscito da un film degli anni ’70. I baffi, anche di quelli non avevano mai parlato. Dopo che lei aveva detto che i baffi su un uomo potevano essere assolutamente sexy, lui se li era lasciati crescere senza che lei ne facesse accenno. Sapeva bene infatti che se solo ne avesse parlato lui se li sarebbe tagliati immediatamente. Lei aveva imparato a conoscerlo, ad aspettarlo e lui aveva imparato a cercarla. Senza fare fatica, si erano trovati e tutto era naturale e normale come l’aria che respiravano.
Una folata di vento caldo riportò Agnese alla realtà. Rigirò la testa e la riappoggiò sulla mano con il tentativo di tenere fermi i capelli che le andavano sugli occhi. I campi di grano giallo oro continuavano a scorrere accanto alla macchina. Il sole ormai stava scendendo e in lontananza si vedevano dei corvi che volteggiavano.
"Giampaolo"
"Dimmi"
"Se ci fermassimo un secondo? E’ così bello qui che vorrei scendere un attimo dalla macchina e godermi il paesaggio".
"Come vuoi…..", rispose questa volta girandosi e guardandola dritto negli occhi.
La macchina accostò sul ciglio della strada. Il motore si spense, la radio smise di suonare e le cicale si fecero ancora più assordanti. Agnese scese, si ravvivò la gonna e i capelli e lo cercò con gli occhi. Giampaolo, era lì fermo appoggiato alla macchina che approfittando della breve sosta si stava facendo una sigaretta. A lei era sempre piaciuto come muoveva le mani. Mani esperte che sistemavano il tabacco sulla cartina che poi bagnava passandola delicatamente sulla lingua. Avrebbe tanto voluto essere lei quella sigaretta, guardata con desiderio, accesa con voluttà e fumata lentamente per godersela fino alla fine.
Invece nulla lei e quella sigaretta avevano in comune solo gli automatismi di lui, il rollare e il metterle la mano sul ginocchio. Movimenti e gesti che ormai faceva quasi senza rendersene conto, meccanicamente.
"Ti piace qui?", chiese lei avvicinandosi.
"E’ molto bello. Non avevo dubbi che mi avresti portato in un bel posto" rispose lui guardandola e sorridendole con dolcezza. A volte Agnese aveva la sensazione che lui avesse molta più stima di lei di quanto ne avesse lei per se stessa.
Si sorrisero, si fecero stretti. Lei gli si appoggiò addosso e lo baciò di un caldo bacio. Ancora una volta avrebbe voluto che il tempo si fermasse in quell’istante. Improvvisamente si staccò da lui, gli diede una carezza sul viso e risalì in auto.
"Andiamo? Altrimenti non arriviamo più, è tardi"………tardi per cosa poi, pensò subito dopo. Erano solo loro due, i campi di grano e il loro silenzio.
Il motore si rimise in moto, la radio riprese a suonare un pezzo disco anni ’80, il vento riprese a scompigliare i capelli e ad entrare caldo. E i loro silenzi improvvisamente ripresero a parlarsi come un tempo.

Il giocattolaio

Ci sono posti, luoghi, negozi, palazzi nelle nostre città che non sapremmo mai dire quando sono stati costruiti, o aperti, o chiusi. Ci sono posti, luoghi, negozi, palazzi nelle nostre città che non sappiamo neanche che esistono eppure sono.
A Milano, in corso di porta Romana vicino all’antichissima chiesa di San Nazzaro, c’è un piccolissimo negozio che vende giocattoli vecchi. Nessuno degli abitanti della zona se interrogato può dire quando quel piccolo negozio è stato aperto. I giovani giurano di ricordarselo da sempre, gli anziani sostengono che è nato insieme a Milano e che il suo proprietario è il tempo. Fatto sta che nessuno ha mai fatto caso più di tanto a quel piccolo negozietto.
In effetti a ben guardarlo passa piuttosto inosservato. Una piccola vetrina ordinata e pulita con carillon, trottole, soldatini, bambole, trenini, macchinine di latta ed altro ancora. Il proprietario è un signore dall’età indefinita. Non molto alto, i capelli neri corvini tirati indietro e laccati sulla testa dalla brillantina, un paio di occhiali piccoli e rotondi che nascondono due piccoli occhietti, e due baffi lunghi, sottili e ben curati. Il suo nome Amos Zoma. Ogni mattina puntuale alle nove tira su la saracinesca per abbassarla ogni sera alle ore otto in punto. Le sue giornate le trascorre dietro al bancone a pulire, aggiustare, studiare i nuovi vecchi giocattoli che gli arrivano ed ad aspettare il prossimo cliente. Ad entrare sembra di essere in un paese del balocchi di collodiana memoria; un luogo dove il tempo sembra essersi fermato.
Era il periodo di Natale e Milano come ogni anno venne vestita a festa. Le luminarie rendevano ancor più evanescente e particolare quell’aria umida e un po’ nebbiosa che ogni sera scendeva per le strade, tutto assumeva uno spettrale color giallino. Le persone camminavano di fretta strette nei cappotti, vuoi per la premura, tipica dei milanesi, o per il freddo, o ancora per l’ora tarda. Tutti andavano di fretta, entravano ed uscivano dai negozi, si fermavano velocemente davanti alle vetrine, guardavano, osservavano e proseguivano. I lunghi tram scivolavano lungo le rotaie di corso di porta Romana accompagnati dal loro tipico rumore di ferro vecchio. Gente che saliva, gente che scendeva alle fermate, sempre di corsa, sempre di fretta, e mai in ritardo. Anche Amos Zoma aveva addobbato a festa la vetrina del suo negozio. Delle semplici lucine bianche per attirare l’attenzione, al centro appoggiato su dell’ovatta un grande carillon rotondo con delle damine del ‘700, vicino dei piccoli cavalli di legno, delle bambole, i trenini più belli appoggiati alle mensole sui lati, insieme alle macchinine ed ai soldatini di pasta.
La gente si fermava incuriosita e guardava con occhi bambini. Qualcuno entrava, e chiedeva informazioni ricordando improvvisamente quella bambola che stava in soffitta dentro il baule e che era appartenuta alla bisnonna.
"Buonasera" così accoglieva il signor Amos Zoma i possibili clienti "posso fare qualcosa per lei?"
"Buonasera" rispose l’uomo appena entrato "sono stato attirato dagli oggetti della sua vetrina, bellissimi!"
"Già" rispose Amos Zoma, mentre strofinandosi le mani si allontanava dal bancone per avvicinarsi alla vetrina "già. Sono tutti veri. Alcuni hanno anche più di cent’anni".
"Se solo sapessero parlare, quanta storia potrebbero raccontare" riprese l’uomo.
"Sta cercando qualcosa in particolare?" chiese Amos Zoma
"No. Si. No, non saprei" continuò incerto il cliente "a dire la verità stavo scendendo dal tram quando ho notato la sua vetrina. E’ da anni che abito in questa zona, poco più avanti in via dei Pellegrini, e non avevo mai fatto caso a questo negozio. E’ una vera perla".
"Grazie" replicò compiaciuto Amos Zoma mentre con la mano destra si lisciava i sottili baffi "ho sempre collezionato giocattoli e rarità. Sa, sono oggetti rari e preziosi, sono quasi tutti per bambini, ma alcuni sono per adulti. Tutti comunque hanno avuto in comune il desiderio di essere posseduti da qualcuno."
"Già, ricordo ancora un capriccio che ho fatto da bambino quando volevo il capo indiano a cavallo in pasta della Elastolin" disse ridendo l’uomo
"Ne ho alcuni se l’interessa" rispose Amos Zoma "altrimenti posso permetermi di mostrarle qualcosa di più curioso."
Nel dire questo voltò le spalle e velocemente sparì dietro una porta nascosta da una tenda. "mi scusi, ma vado un’attimo nel retro bottega, nella stanza dei segreti!" disse ridendo sotto i baffi e sempre strofinandosi le mani Amos Zoma.
L’uomo rimase da solo nel negozio. Allungò la mano e prese in mano un piccolo soldatino della Lineol, rappresentava una indiano con l’arco in mano. Era perfetto, non un segno del tempo, sembrava quasi un vero sioux rimpicciolito e pietrificato.
"Eccomi!" si annunciò improvvisamente Amos Zoma "eccomi di nuovo qui." L’uomo ripose immediatamente il piccolo indiano e si avvicinò al bancone dove era stata appoggiata una grande scatola.
Amos Zoma si tolse gli occhiali per pulirli e l’uomo potè vedere bene quei suoi piccoli occhietti dal guizzo luciferino e inquietante. Improvvisamente avvertì del disagio. Il piccolo omino aprì la scatola e ne mostrò il contenuto: "E’ un carillon. Come vede è perfetto o quasi." Il carillon era a forma di disco su cui erano incastrate cinque coppie di ballerini. L’omino girò la chiavetta, mise in moto il meccanismo e tutto improvvisamente prese vita.
"Vede. La perfezione di piccoli e semplici ingranaggi di metallo. Amati e curati da me…sembra una magia" commentò Amos Zoma "E’ completo in ogni sua parte, manca soltanto il cavaliere di quella signorina lì" e con il dito indice indicò una piccola bambolina. Tutte le figure avevano la testa, le braccia e le gambe di porcellana ed erano vestite di seta. Le donne indossavano degli abiti con delle perline e dei diademi in testa con delle piccole piumette tipici degli anni ’20, mentre gli uomini erano rigorosamente in nero.
"Guardi la cura dei particolari. Ormai non se ne vedono più così. Gli abiti sono in seta, i capelli sono veri e così le perline di vetro."
La musica del carillon continuava a suonare metallica e fredda, sembrava un valzer, mentre le figurine abbracciate giravano contemporaneamente intorno al disco e su loro stesse. L’uomo ne rimase affascinato e turbato allo stesso tempo. Erano così reali da sembrare dei piccoli uomini. Poi improvvisamente la musica finì e le piccole figure smisero di girare.
"Manca un personaggio" ruppe il silenzio Amos Zoma "non riesco a trovarne altri di simili per sostituirlo. Non lo trova però perfetto?"
"Già. Girano e girano su loro stessi in continuo. " disse l’uomo mentre si chinava per guardarlo meglio, poi riprese "i loro volti…le loro espressioni…così vere i loro sguardi sembrano così tristi. Ma che origine ha questo carillon?"
"Non saprei esattamente. L’ho comprato da una anziana nobildonna russa che era fuggita a Parigi dopo lo scoppio della rivoluzione. Sa ho vissuto anche a Parigi. Comunque l’ho acquistato che era tutto rotto e l’ho ricostruito pezzo a pezzo, ora mi manca solo una figurina. Spero di trovarla presto" e nel dire queste parole Amos Zoma fissò il suo cliente. Nonostante nascosti dagli occhiali i suoi occhi piccoli e scuri improvvisamente divennero grandi, enormi, giganteschi, di un nero mai visto, sembravano volessero inghiottirlo. L’uomo per un attimo ebbe quasi la sensazione di non riuscire a muoversi, gli sembrava di vedere dentro quelle enormi palle nere il terribile vuoto del nulla, del non tempo, del non spazio, del non essere. Poi improvvisamente si riprese, scosse la testa e disse: "Si, si, interessante la storia. Ora si è fatto tardi è meglio che vada. Grazie per il tempo dedicatomi. Buonasera"
Fece per voltarsi quando si sentì afferrare per il braccio "grazie per il tempo dedicatomi? Ma io caro signore non le ho dedicato nessun tempo. Guardi pure l’orologio, vede non è passato neanche un minuto da quando è entrato" rispose Amos Zoma
L’uomo guardò l’ora, erano sempre le 19.55, la stessa ora di quando era entrato, poi guardò fuori, il tram da cui era sceso stava ora chiudendo le porte per ripartire e sul marciapiede vedeva camminare la stessa bella ragazza che lo aveva inavvertitamente urtato quando stava per scendere.
"Come può essere…?" chiese spaventato
"Come può essere…può essere e basta. Questo è un posto senza tempo, passato e futuro si uniscono in un unico presente. Io creo tutto questo. Vede voi avete l’impressione di vivere, di crescere, di invecchiare, ma in realtà ciò che voi percepite del passare del tempo è solo un fatto relativo. Il tempo non esiste, o per lo meno non esiste come lo pensate voi. Il tempo lo faccio io che non ho tempo, voi vivete e basta. In realtà le vostre esistenze sono così brevi…per questo avete il senso del passare del tempo relativo. Non ci ha mai fatto caso? Il tempo passa in fretta ed allo stesso modo a volte sembra non passare mai?"
L’uomo sempre più spaventato iniziò ad indietreggiare verso la porta
"E’ troppo tardi ormai, e su questo aveva ragione lei, signor mio" disse Amos Zoma mentre si toglieva gli occhialini "vede io sono l’artefice del vostro tempo, l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega. Voi mi appartenete, io vi ho creato e pensato, io sono il vostro caso, o come lo chiamate voi destino, fato coincidenza e quant’altro. Sono io, io soltanto." L’uomo indietreggiò ancora con occhi terrorizzati "Spaventato? E perché mai? In fondo è stato lei ad entrare nel mio spazio, nel mio non tempo nel mio nulla senza fine, già perché io il tempo non ce l’ho. Io la stavo aspettando, è per non annoiarmi che vi ho inventato. Passo la mia vita a girare di paese in paese e posso essere nel passato nel presente e nel futuro allo stesso modo in posti diversi. Gliel’ho detto vero? Il carillon l’ho comprato a Parigi per lei negli anni ’20, ma a me è bastato andare nel nulla del retrobottega per andare ad acquistarlo. Spazio e tempo che si confondono…"
Amos Zoma si fece sempre più vicino all’uomo, i suoi occhi erano di nuovo grandi e neri e sembravano voler inghiottire tutto ciò che guardavano
"Vede questi giocattoli, signor mio? Li ho fatti tutti io. Quando le raccontavo che sono veri, non scherzavo, sa? Questo piccolo soldatino in pasta, per esempio…" e aprì la mano per mostrare il piccolo indiano sioux con l’arco "lo vede bene? Vede l’espressione del suo viso? E’ di stupore, è stata la sua ultima espressione prima che io interrompessi il suo tempo. O ancora questa bambola a forma di damina del ‘700, guardi bene gli occhi, non ne legge la tristezza cristallizata? Ebbene anche lei è opera mia. Ora le faccio vedere uno dei miei capolavori…vede questo autobus di latta? Lo guardi attentamente, anzi lo prenda in mano" e nel dire ciò glielo porse. L’uomo lo prese e lo avvicinò al viso. Dentro si poteva distinguere chiaramente l’autista con la divisa e il cappello, e tutti i passeggeri seduti ognuno al loro posto ordinatamente, una madre con in braccio il figlioletto, una bambina con i codini, e la cartella affianco, un signore con il giornale aperto, una vecchina con la borsa della spesa, una coppia di fidanzatini che si teneva la mano. L’uomo alzò lo sguardo appoggiò il piccolo autobus non più lungo di una decina di centimetri e fissò incredulo Amos Zoma che riappropiandosi del giocattolo lo rimise al suo posto nella vetrina. "questo è il mio capolavoro. Anni ed anni….dico per lei che scandisce il tempo in minuti, ore giorni mesi ed anni, di lavoro a cercare le persone giuste da mettere dentro. Sa non è facile. Non tutti quelli che incontro e che entrano nel mio negozio vanno bene. Vede lei sarebbe perfetto" disse alzando gli occhi che ora avevano assunto un’espressione particolarmente seria. L’uomo ormai senza più riuscire neanche a parlare indietreggiò verso la porta che dava sul buoi del retrobottega "già lei è perfetto, l’altezza giusta, il corpo longilineo, i capelli scuri, i lineamenti nobili e i movimenti eleganti. Già lei è perfetto per quell’oggetto." E indicò il carillon che stava sul tavolo "si ricorda, ne manca un personaggio. Una donna è senza cavaliere e lei è perfetto." Nel dire questo Amos Zoma si fece sempre più vicino all’uomo, i sui occhi ormai erano diventati interamente neri e piano piano stavano inghiottendo nel loro vuoto infinito l’uomo.
Le feste di Natale passarono. Milano ritornò buia senza le luminarie e la gente sembrava meno di fretta. La vita riprese a scorrere normalmente, come sempre. Il piccolo negozio di giocattoli in Corso di Porta Romana c’era sempre. Il suo proprietario aveva tolto anche lui le piccole luci bianche natalizie e aveva cambiato i giocattoli in vetrina. Ai lati sempre i soliti trenini, autobus, macchini e soldatini, al centro le solite bambole facevano da contorno ad un nuovo carillon. Cinque coppie di ballerini vestiti con abiti elegantissimi erano pronti per cominciare a muoversi non appena la musica avesse iniziato a suonare. Era perfetto in ogni sua parte, le figure sembravano vere e a guardar bene uno di loro sembrava quasi avere le lacrime agli occhi.