lunedì 16 aprile 2007

LA STAZIONE


Il signor Ernesto Piovani era in anticipo per il treno che doveva portarlo a destinazione. La stazione brulicava di gente come fosse un formicaio. Chi guardava il pannello con gli orari delle partenze, chi quello degli arrivi. Chi sbuffava per il ritardo del treno, chi imprecava per il treno appena perso.
La voce, una fredda voce femminile con grande noia e senza nessuna intonazione o accento annunciava gli arrivi, i ritardi, le partenze e i cambi di binario.

Faceva freddo. Era inverno. Era mattino e dalla grande volta di vetro e ferro filtrava una fredda e soffusa luce. Il signor Piovani decise di andare a sedersi ad un piccolo tavolino del bar della stazione per ingannare l’attesa. Ordinò un caffè. Si tolse il cappello in feltro grigio e lo appoggiò con cura sulla sedia vicina. Poi prese il giornale e cominciò a leggere. Era un uomo di circa 70 anni. Aveva famiglia, una moglie che amava infinitamente, due figli, un maschio ed una femmina, 3 nipoti, ed un cane. Insomma non era nulla di diverso dal normale padre di famiglia.
Era dovuto partire all’improvviso. Una mattina mentre usciva di casa per andare a fare la solita passeggiata, senza rendersene conto si ritrovò in fila allo sportello della biglietteria della stazione. Aveva seguito il terribile e irrefrenabile impulso di comprare un biglietto per Castelmonte, il suo paese di origine.
“Andata per l’11 febbraio, ritorno per il 13. Tutte e due con prenotazione, seconda classe, grazie” Chiese al bigliettaio
“Per l’andata non ci sono problemi, per il ritorno……non posso farle la prenotazione. Per il 13 febbraio è previsto uno sciopero nazionale. Se vuole possiamo cambiare data.” Rispose una voce gentile al di là del vetro di protezione
“No, devo assolutamente rientrare per quella data. Sa….. la famiglia. Vabbè, non importa la prenotazione, mi faccia però lo stesso il biglietto di ritorno. Cercherò di arrangiarmi in un modo o nell’altro” disse con tono rassegnato il Signor Piovani.
Pagò, ritirò i biglietti, li controllò e se ne andò.
Chissà perché gli era venuta quella voglia irrefrenabile di tornare al suo paesetto. In fondo non c’era più nessuno che lo aspettava. I suoi genitori erano morti anni prima. Sua sorella viveva a Roma, felicemente sposata e godeva di ottima salute. Lì era rimasta soltanto la vecchia zia Rosa, sorella di sua mamma. Ormai aveva più di 90 anni, non si era mai sposata. Era stata fidanzata da giovane, ma il ragazzo che amava non era mai tornato dalla Russia durante la seconda guerra mondiale. Era stato dato per disperso. Nessuno ne aveva mai trovato il corpo o una croce che potesse confermare il suo destino e così la vecchia zia Rosa aveva continuato a sperare e ad aspettare e nell’attesa i capelli le erano diventati bianchi e il viso si era coperto di rughe.

La sera del 10 febbraio, Ernesto Piovani rientrò a casa come suo solito dopo la passeggiata serale. Appese il cappotto grigio, appoggiò il cappello di feltro sul mobile in ingresso. Salutò la moglie e andò in camera a sistemare le sue cose per il viaggio. Preparò una piccola borsa. Non sapeva bene cosa gli sarebbe servito, certo sarebbe stato via poco. Due camice ed un ricambio di pantaloni più la biancheria potevano bastare. Gli venne in mente che forse doveva prenotare l’albergo, ma poi pensò che per due notti non ci sarebbe stato problema a trovare una stanza all’hotel Postiglione.

A cena come ormai da anni, erano solo lui e la moglie Anita. Un piatto di minestrone, un involtino e un’arancia. Questo era il tutto. Già si pregustava la deliziosa pasta fatta in casa tipica del suo paese, condita con il ragù di lepre e accompagnata da un sincero vino rosso.
Finita la cena. Nel silenzio delle parole, ma tra il rumore dei piatti e delle stoviglie che la moglie disponeva nella lavapiatti Ernesto Piovani andò in salotto a sedersi sulla sua solita poltrona con il solito giornale; era la solita serata. Poco dopo la moglie lo avrebbe raggiunto e avrebbero cominciato a chiacchierare della giornata appena trascorsa.

Il mattino successivo, svegliatosi di buon ora. Si preparò con cura, chiuse la piccolissima valigia, salutò la moglie, si mise il cappello, il cappotto prese i guanti ed uscì. Dalla strada si voltò solo un attimo a guardare la finestra aperta della camera da letto, come se volesse portare per quel viaggio questo ultimo ricordo.

Il Signor Ernesto Piovani ora si trovava in stazione, e per paura di perdere il treno era terribilmente in anticipo. La gente attorno a lui si muoveva frenetica. Erano tutti seri e concentrati sull’orario e sul binario giusto. Era seduto al tavolino del bar quando vicino al suo si accomodò una donna sulla quarantina.
“Scusi, saprebbe dirmi l’ora?” gli chiese
“Sono le dieci meno venti.” Rispose lui gentilmente.
“Sa, sono uscita di casa di corsa perché ero in ritardo ed ho dimenticato di prendere l’orologio. Per fortuna il mio treno è in ritardo, così ho il tempo di riprendere fiato dopo la corsa e di bermi un caffè. E’ in partenza anche lei? Mi scusi, forse sono stata troppo indiscreta” Disse lei con gentilezza
“Si, ma sono arrivato in anticipo. Così anche io ho approfittato per bere qualcosa di caldo. Vado al mio paese, ma solo per due giorni. E lei dove va di bello?” chiese Ernesto Piovani
“Raggiungo mia madre. Sa è una donna anziana e sola. Così lascio per poco la mia famiglia, ma a loro sembrerà un’eternità, e vado dalla mamma.” Rispose lei sorridendo.

La solita fredda voce di donna annunciò il treno in partenza dal binario 6. “Eccolo, è il mio. Vado. Grazie per le chiacchiere. Buona giornata e buon viaggio” e così la donna di allontanò con una piccola valigia in mano.
Ernesto Piovani si guardò intorno. C’erano molti uomini ed erano quasi tutti da soli, probabilmente in viaggio per lavoro. Poi vide una famiglia, una madre che teneva in braccio un bambino piccolissimo che salutava il marito. Si stringevano forte, poi lui si staccò da lei improvvisamente, la baciò un ultima volta si voltò e se ne andò, gli sembrava piangesse. La donna rimase ferma in piedi a fissarlo mentre lui si incamminava verso l’uscita, si strinse più forte al petto il figlioletto che pareva di dormire di un sonno senza fine e si incamminò silenziosamente verso il treno fermo al binario 9.
Gli addii sono sempre dolorosi pensò

Il grande orologio della stazione segnava ormai le dieci e dieci. Il suo treno sarebbe partito alle 11.00. Aveva ancora cinquanta minuti di attesa. Decise quindi di andare in sala di attesa. Si rimise il cappello in feltro grigio, lasciò un euro sul tavolino per il caffè prese la piccola valigia e si incamminò. Tutti attorno a lui si muovevano agitati. Entrò nella grande sala d’aspetto. C’erano altre persone sedute. Alcune leggevano il giornale, altre un libro mentre altre ancora chiacchieravano tranquillamente. Trovò una sedia libera. Si sedette e aspettò. La fredda voce di donna, ormai famigliare alle sue orecchie, continuava ad annunciare le partenze e i ritardi. Ad ogni avviso c’era qualcuno che si alzava silenziosamente e si allontanava e chi sbuffava guardando l’ora e pensando al tempo che stava perdendo. Nella sala faceva caldo, quindi si tolse il cappello e il cappotto. Poi prese il telefonino per chiamare la moglie e farle un ultimo saluto. Compose il numero, ma la comunicazione saltava, lo ricompose e ancora una volta la linea veniva a mancare. “Mi spiace, signore, ma non c’è campo. E’ strano, ma oggi non si riesce a telefonare. Pare sia saltato un ripetitore o non so cosa, per cui non c’è più copertura di rete. Speriamo che lo sistemino presto. Anche io volevo avvisare mia moglie che stasera non riesco a tornare a casa, ma non sono riuscito a farlo.” Intervenne un uomo giovane.
“La ringrazio” rispose il signor Piovani e poi chiese “Lei sa se ci sono delle cabine telefoniche? Potrei provare con la scheda…..sa con questi mezzi moderni non è che mi trovo molto bene”
“Sì ce ne sono quattro appena fuori di qui, a destra dopo la farmacia. Ma sono tutte fuori uso. Ho provato anche io a telefonare prima. I soliti vandali.” Disse l’uomo
La voce annunciò “Il signor Francesco Bignadoni è atteso con urgenza al binario 7.”
“Sono io, è la terza volta che annunciano il mio treno. Ma non pensavo che arrivassero a tanto, a chiamarmi anche per nome. Ci manca solo che adesso il capotreno venga a prendermi per le orecchie e mi trascini al mio posto vicino al finestrino. Vabbè mi sa che è tempo che vada. La saluto e faccia buon viaggio. Spero solo di riuscire ad avvisare mia moglie durante il viaggio. Arrivederci” si alzò, prese anche lui la sua piccola valigia e si allontanò.

Ernesto Piovani, lo fissò mentre usciva dalla sala d’aspetto. Poi guardò attorno a sé. C’era un signore anziano, un uomo giovane, un bambino che viaggiava da solo con un cartello appeso al collo con su scritto il nome e il cognome e la destinazione, una donna che lavorava all’uncinetto e una ragazza giovane che piangeva mentre stringeva nella mano una lettera.

“Mi scusi, si sente male?” chiese Il signor Piovani avvicinandosi.
“No. Anzi mi scusi lei per lo spettacolo indecoroso che sto dando. Sono solo pene d’amore.” Rispose la ragazza
“Pene d’amore? Ma una ragazza giovane e carina come lei che pene vuole avere. Al massimo è lei che farà penare i ragazzi” disse lui cercando di farla sorridere
“Già, dovrebbe essere così, ma in realtà non lo è.”
“Cosa le è successo, se non sono indiscreto”
“La cosa peggiore che potesse accadermi. Ieri per fare una sorpresa al mio ragazzo con cui convivo da un anno, sono uscita prima dall’ufficio e sono tornata a casa con l’idea di preparare una buona cenetta. Invece è stato lui a farmi la sorpresa……era con un'altra. E così ho deciso di andarmene per sempre. Torno a casa, dai miei genitori. Gli volevo scrivere una lettera” disse lei alzando la mani e facendo vedere un foglio con alcune parole rese illeggibili dalle lacrime
“Mi spiace” disse lui “ma si faccia forza, forse non tutto è perduto e lui verrà a cercarla”
“Ormai è troppo tardi” rispose lei. La solita voce annunciò il solito treno in partenza. La ragazza si alzò, lo salutò, si sistemò i capelli, si asciugò gli occhi, si ricompose e con dignità silenziosamente uscì anche lei dalla sala.

Ormai si stava avvicinando anche l’ora del suo treno, erano le undici meno dieci. Ernesto Piovani si rimise il cappotto, prese il cappello, la piccola valigia e si incamminò verso il pannello grande che segnalava le partenze e i binari. Ecco la solita voce di donna dare l’annuncio. Accanto a lui altre persone si muovevano verso il binario 3, come un lento e calmo fiume. Il capotreno aspettava davanti all’ultimo vagone. Biglietto alla mano tutti ordinatamente prendevano posto. Non una parola si sentiva.
Ernesto Piovani era al vagone 4 posto 76 vicino al finestrino. Sistemò la piccola valigia sopra la sua testa, si tolse il cappotto, il cappello e si sedette. Il posto accanto a lui venne presto occupato. Si guardò attorno, tutto il treno era pieno. La cosa strana è che erano tutte persone che viaggiavano da sole. Silenziosamente e compostamente presero ciascuno il proprio posto, e con sguardo rassegnato guardavano fuori come se con gli occhi cercassero qualcuno o semplicemente un po’ di conforto.

Puntuale il treno alle undici chiuse le porte e partì. Piano piano Ernesto Piovani sentì muoversi. Guardò fuori, la stazione scorreva accanto a lui, si stava allontanando. Guardò meglio e vide sua moglie Anita con i due figli, il genero, la nuora e i tre nipoti che piangevano. Cercò di richiamare la loro attenzione, chiamò la moglie picchiò il pugno sul finestrino. Si alzò e percorse il treno in senso contrario, come se volesse scendere e raggiungere la sua famiglia. “Perché sono partito. Perché sono partito” continuava a chiedersi “non volevo, voglio scendere e tornare da loro”.

Una figura in divisa gli si avvicinò, lo prese per un braccio e cercò dolcemente di tratternelo. “ Non può più scendere, almeno non fino a destinazione. Il suo treno ormai è partito. Non si preoccupi, il viaggio andrà bene eppoi prima o poi rivedrà la sua famiglia. Stia tranquillo ora e ritorni a sedersi.”
Il signor Ernesto Piovani, tornò al suo posto. Ora era perfettamente in grado di capire il rassegnato silenzio degli sguardi degli altri compagni di viaggio. Si sedette, e guardò fuori dal finestrino. Ora tutto era luce e soltanto luce.

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